Lode all’incompiuto, al suo fascino evanescente, alla sua carezza impalpabile. Dalla tela di Penelope in poi, l’incompiuto esprime il senso del limite delle cose umane. Nell’antichità classica, l’incompletezza non era particolarmente apprezzata; il non finito era ritenuto insufficiente, carente di senso e non di rado le opere rimaste incompiute venivano affidate ad altri artisti perché le completassero. È con il Romanticismo che si diffonde l’ideale della perenne ricerca di mete irraggiungibili e nasce un nuovo interesse per frammenti, note, bozzetti considerati come tracce di percorsi euristici lasciati senza risposte definitive. Nel quaderno di appunti per il secondo libro dei fratelli Karamazof, Fëdor Dostoevskji scrive: Tutto il mondo è incompiuto per l’uomo e, nello stesso tempo, il significato di tutte le cose del mondo è racchiuso nell’uomo stesso.
Se nell’incessante tessitura della tela di Penelope l’incompiuto è attesa e pretesto per procrastinare il più possibile una decisione difficile ed imbarazzante, nella Pietà Rondanini di Michelangelo le figure dei protagonisti emergono dal marmo mentre l’incompiuto si fa strazio, redenzione e preghiera. In ogni linguaggio artistico, in ogni esperienza estetica, il senso dell’incompletezza attesta l’estrema precarietà dell’esistere umano, rilevata ancor più oggi, nel clima di frammentarietà stilistica che caratterizza l’epoca post-moderna. Ma, tornando all’aneddoto omerico col suo ben noto stratagemma tipicamente femminile, è il caso di ricordare che ha ispirato una celebre scultura a Pierre-Jules Cavelier, in cui la regina di Itaca appare sfinita dalla lunga attesa forse più che dall’interminabile lavoro, tanto da suscitare il seguente commento di Théophile Gautier (Les beaux arts en Europe, 1855): “Con la sua Penelope addormentata, Cavelier si è collocato al primo posto tra gli scultori moderni. Accasciata nei suoi casti panneggi, sopraffatta dalla fatica del lavoro, questa figura possiede una grazia pudica e severa, degna dei bei tempi antichi.”
Un’altra donna ineluttabilmente ‘incompiuta’, molto celebrata nell’antichità classica – la regina cartaginese Didone di virgiliana memoria – nella sua condizione di vedova di Sicheo (ucciso dal cognato Pigmalione) ebbe la ventura di innamorarsi perdutamente del naufrago Enea, ma per sua sventura non riuscì a trattenerlo a lungo in terra d’Africa. Il richiamo di un’improcrastinabile missione da compiere in Italia spinse infatti ben presto l’eroe troiano a partire portando con sé sia il vecchio padre Anchise, simbolo del passato e depositario della tradizione familiare, che il figlioletto Iulo (Ascanio) paradigma aurorale di un glorioso futuro, obiettivamente insperabile se paragonato al destino di tre migranti a stento sfuggiti all’eccidio di Troia. E fu così che il compimento della luminosa missione di Enea decretò specularmente la siderale e definitiva incompiutezza della vita sentimentale dell’infelice Didone che, delusa dall’esito negativo dei vani tentativi esperiti per trattenere l’eroe con tutte le arti femminili di cui era capace, scelse di scomparire per sempre dallo scenario del mondo suicidandosi. Dal che si deduce quanto sia pernicioso per una donna innamorarsi di un eroe, o almeno di un uomo che è ostinatamente convinto di esserlo. In tempi moderni, una sorte per certi versi analoga è toccata ad Anita Garibaldi, morta di stenti nella pineta di Ravenna per seguire lo sposo nelle sue gesta patriottiche.
Di situazioni incompiute è piena la vita umana: progetti artistici e scientifici iniziati e poi abbandonati; percorsi personali e lavorativi lasciati a metà perché rivelatisi troppo ambiziosi; amori senza lieto fine spenti per noia stanchezza incomunicabilità; lutti che recidono senza speranza promettenti convivenze. E l’elenco potrebbe protrarsi all’infinito. Ciascuno di noi, per poco che volesse interrogarsi, rintraccerebbe in sé stesso e nel proprio entourage una serie impressionante di elementi incompiuti. Forse anche per questo l’incompiuto è molto diffuso in ambito musicale: tale è il destino del Requiem di Mozart e di ben tre sinfonie di epoca romantica, che vengono normalmente eseguite senza aggiunte apocrife: la Sinfonia n. 9 in re minore di Bruckner, la Sinfonia n.10 in fa diesis minore di Mahler e la Sinfonia n. 8 in si minore di Schubert – detta Incompiuta – scritta in una tonalità inusuale per il periodo classico (né Haydin, né Mozart, né Beethoven scrissero mai sinfonie in si minore) e per questo ritenuta sintomatica dell’incipiente transizione al Romanticismo.
Apocrifo invece è il finale di Tosca, interrotta da Puccini – già gravemente ammalato – dopo la scena della morte di Liù, forse più che altro per un contrasto sorto con lo sceneggiatore sullo svolgimento della trama. È piuttosto improbabile infatti che la raffinata sensibilità del grande maestro toscano potesse convenire sul trionfale lieto fine della storia rappresentato dal matrimonio dell’algida principessa con Calaf, subito dopo la scena in cui Liù si era immolata, prima subendo la tortura per non rivelarne il nome e poi dandosi la morte per amore del principe tartaro (Perché tu un giorno mi hai sorriso). Il completamento dell’opera, affidato da Toscanini ad Alfano, non ha mai convinto fino in fondo altri artisti, prestandosi ad una serie di rifacimenti successivi, altrettanto insoddisfacenti. Sta di fatto che tuttora – ad ogni rappresentazione – viene lasciata al giudizio del direttore d’orchestra la decisione di far terminare o meno l’opera al punto in cui finisce la parte autografa dell’Autore, così come fece Toscanini stesso alla prima rappresentazione (postuma) di Turandot. L’incompiuto pucciniano finisce così per essere consegnato direttamente all’incantato spettatore, che a quel punto fruisce insieme del mistero della storia interrotta e del fascino dell’immortale melodia pucciniana.
In filosofia, l’incompiutezza dell’uomo e del mondo non è solo la categoria che rivela una mancanza, ma una riconosciuta, inderogabile condizione esistenziale collegata alla vulnerabilità della natura umana. Ciò comporta un esercizio di distacco e povertà interiore: essere disposti ad accettare che il punto in cui siamo arrivati è solo una versione provvisoria (Popper) da rivedere per eliminarne – almeno in parte – le imperfezioni, fino ad ipotizzare persino di dover ripartire da zero se necessario. Così, spontaneamente, l’incompiutezza si apre alla reciprocità, alla consapevolezza di non bastare a sé stessi, di aver bisogno del punto di vista altrui per vedere ben oltre il nostro singolare orizzonte autoreferenziale. È questa in particolare la posizione dei filosofi del dialogo (Buber, Lévinas, Rosenzweig) che considerano la cooperazione emotiva e cognitiva fra i dialoganti (di tutte le età, anche privi di specifici prerequisiti culturali) come un elemento essenziale nella ricerca della ‘verità’, intesa come frutto del confronto con il volto dell’altro e di una relazionalità aperta ed accogliente che renda significativo il rapporto Io, Tu, Noi.
Nell’esistenza umana tutto è incompiuto o in fieri, mentre la caducità domina l’orizzonte dei ruderi di templi greci, città romane sepolte dalla lava e grandi cattedrali gotiche segnate dalle ingiurie del tempo. L’epoca che stiamo vivendo non è da meno: ponti che crollano, ghiacciai che si sciolgono come neve al sole, paesaggi che mutano per i cambiamenti climatici… Persino la ricostruzione edilizia – a molti anni di distanza dai vari terremoti che hanno colpito duramente borghi e città stravolgendone l’identità originaria – lascia molti vuoti negli ambienti urbani dove pulsava la vita, il chiacchiericcio delle comari e l’allegria festante dei bambini. Incompiute sono e restano un po’ dovunque molte grandi opere appaltate senza sani criteri di programmazione infrastrutturale ed economica.
Ma quando mai si potrà dire veramente dire: Tutto è compiuto?
Per gentile concessione di Franco Genzale, dall’omonimo sito web.
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