Dov’è Dio? Questa semplice domanda è al centro del nuovo libro di Franco Cardini
Dov’è Dio? Questa semplice domanda è al centro del nuovo libro di Franco Cardini Le dimore di Dio. Dove abita l’eterno, che il Mulino porta in questi giorni nelle librerie (pagine 360, euro 16,00) e del quale proponiamo un estratto. Prendendo le mosse dalla ricerca spasmodica di un Divino immaginato e sperato, nel volume riccamente illustrato il medievista approda alle immagini concrete di come Dio sia presente nelle opere dell’uomo, in quelle forme architettoniche spesso perdute, malintese e dimenticate, del Santuario, del Tempio, della Sinagoga, della Cattedrale, della Moschea. E in filigrana in altri santuari, in altri templi, in altri luoghi sacri.
Quando penso alla dimora di Dio, la mia educazione cattolica m’induce a immaginare il Paradiso come una città, la Gerusalemme celeste, ma io preferisco figurarmelo piuttosto come un giardino. E, tra i modelli storici di esso, nonostante abbia avuto la straordinaria fortuna di trascorrere quasi per intero la mia infanzia e la mia preadolescenza nel giardino di Boboli, a due passi dalla mia casa d’Oltrarno dove ho passato alcune ore quasi tutti i giorni tra i 6 e i 14 anni, non riesco ad abbandonare l’idea che il «mio» paradiso, quello dove mi piacerebbe passare l’eternità, sia l’Alhambra di Granada. Certo, non vorrei mai che Dio scegliesse in quel luogo il cinquecentesco palazzo di Carlo V, pur bella residenza che ricorda il vignolesco palazzo Farnese di Caprarola: preferirei saperLo – non oso tuttavia pensare che mi concederebbe udienza – insediato negli ambienti moreschi circostanti il cortile dei Leoni, o nelle sere più fresche al Generalife. Quanto a me, mi accontenterei di una stanzetta del vicino Parador de San Francisco, splendido hotel a cinque stelle lusso camuffato da eremo – o, se preferite, viceversa – dove restano aperte giorno e notte comode sale di lettura e si servono ogni mattino favolose colazioni (in Paradiso la preoccupazione del colesterolo è ovviamente assente). A meno che non si dovesse scegliere un ambiente più mistico: e allora amerei molto l’isola di Iona, beninteso con opportune assicurazioni sul clima, che là non sempre è paradisiaco (freddo d’inverno, zanzare d’estate). […] Dio è inconoscibile, inimmaginabile, ineffabile. Il concepirLo, l’immaginarLo, il rappresentarLo in modo adeguato sono imprese impossibili: non ci sono riusciti nemmeno Francesco d’Assisi, Michelangelo, Johann Sebastian Bach. Certo, Lo si può negare, rifiutare, bestemmiare, dileggiare: tutto ciò fa parte della nostra nullità, non della Sua gloria che non ne viene neppure sfiorata. Ma il solo provare a pensarLo sul serio spaventa, fa tremare il cuore: come un’eclisse totale di sole, un’eruzione, una tempesta, il silenzio del mare in una notte profonda senza stelle, il tuono di una cascata. Eppure, ci è familiare. Possiamo crederci fermamente, anche se non sono in molti a riuscirci davvero; possiamo anche essere convinti che, come si usa dire, «non esiste»: ma il dubbio (e magari la paura; e soprattutto la speranza) rimane, e c’è chi non ci crede ma non osa sentirselo dire mentre lo dichiara; e chi ci crede ma si vergogna ad ammetterlo. Comunque il Suo nome ci conforta, ci fascia, ci riscalda come un affetto materno. Nella mistica cristiana, il tema di «Dio nostra madre» ci è insondabilmente caro e prezioso. Nella shahada musulmana, la «professione di fede» (letteralmente «testimonianza»), i suoi novantanove nomi benedetti, gli aggettivi ar-rahman e ar-rahim che si riferiscono alla Sua clemenza e alla Sua misericordia, rimandano a molto più dell’amore spirituale e carnale insieme: sono caldi, intimi, sicuri come un ventre materno. Nell’ebraismo, le quattro lettere del Suo nome impronunziabile, YHWH, ci riempiono di timore eppure di forza. Come può essere Iddio così terribile e così tenero, così possente e così dolce al tempo stesso? Ormai antropologia religiosa e scienza delle religioni ci hanno insegnato che questa brevissima, fatidica, ineffabile parola «Dio» cela i contenuti più vaghi e imprecisi: e che alla fine, quando si parla di Lui, non si sa mai bene a che cosa ci si riferisca se non a un venerabile spauracchio, a un’illusione ritagliata nella nostra paura oppure a una cara immagine d’infanzia. L’istinto ce Lo fa sentire prossimo, intimo; la ragione c’invita a considerare l’incalcolabile distanza che ci separa da Lui.
dal sito di Avvenire di sabato 13 novembre 2021
Scrivi un commento