Colpisce, leggendo il Vangelo, vedere come tra i primi messaggi del cristianesimo c’è quello della pace. Alla nascita del Bambino a Betlemme, gli angeli annunciano la pace. Colpisce anche che questo annuncio venga rivolto ai pastori. Perché? I motivi potrebbero essere tanti. Ma uno tra questi – lo si capirà bene dopo, ai tempi della predicazione di Cristo – è che indubbiamente il pastore conosce le pecore, sa cosa è bene per le sue pecore e cerca il bene per le sue pecore. Infatti, per questo Cristo viene: per quel bene che gli uomini cercano e che è lui stesso, il pastore buono.
Scrive l’evangelista Luca: «C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge». A loro apparve un angelo e, prosegue il Vangelo, «subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”. Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: “Andiamo dunque fino a Betlemme”.»
Come si vede, con il cristianesimo non si tratta soltanto di cercare un bene esistenziale, legato alla felicità personale che pure è ciò che l’uomo immediatamente cerca. Il bene è anche una felicità “sociale”, si potrebbe dire; che cioè investe i rapporti tra gli uomini. Ciò che si chiama appunto pace. Nessuno, evidentemente, può essere individualmente felice in un contesto di guerra.
Il Natale annuncia la pace. Questo annuncio è rivolto ai pastori perché Cristo stesso vorrà essere il pastore. “Io sono il buon pastore, il bel pastore”. Nella Chiesa, pastore è la guida del popolo, colui che conduce le pecore alla pastura.
Si può vedere in questo anche un messaggio politico attualissimo. Un invito a guardare ai pastori. L’uomo contemporaneo non ricerca più i suoi pastori. Non cerca uomini che sappiano guidare i popoli verso la pace dei pascoli. E chi guida i popoli non cerca più quel bene che cercano i pastori ma il consenso populista per conquiste di potere.
Quante guerre possono farsi risalire alla rassegnazione riguardo a una promessa di bene che può venire da chi guida le nazioni. In questo senso vogliamo prendere come segno di speranza la fotografia del fotografo canadese John Zada che pubblichiamo, che ringraziamo e che riprende un pastore afgano che conduce le sue greggi in un cimitero di mezzi militari distrutti.
Se guardiamo ai grandi “pastori” della non violenza come Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela possiamo vedere come le vere rivoluzioni, quelle che hanno veramente cambiato il mondo e il corso della storia, sono state animate dal rifiuto della violenza e dalla tenace ricerca del bene. Sono state il risultato del desiderio di procurare il bene al proprio popolo, come fanno i poveri pastori nei confronti del loro gregge.
Il dramma palestinese non consiste tanto in una difficile convivenza tra popoli di etnie diverse. È il peccato di aver delegittimato e talvolta ucciso quei capi che a una soluzione pacifica erano pervenuti. Pensiamo al destino di Sadat, di Rabin, dello stesso Arafat.
Possiamo vedere quanta sterilità, quanta dannazione ci sia nella violenza delle guerre. Azioni folli che non conducono da nessuna parte se non in situazioni di stallo da cui nessuno può mai sperare di uscirne vincitore. A meno che non si voglia chiamare vittoria la distruzione di città e villaggi; non si voglia chiamare vittoria cioè la morte. Lo vediamo bene in Ucraina.
Dovrebbe averlo insegnato la storia. Dovrebbe averlo insegnato almeno il santo Natale che ha indicato quelle figure umane, i pastori, che gli uomini dovrebbero con fiducia tornare a seguire. Noi che cerchiamo la pace, con i pastori «andiamo dunque fino a Betlemme».
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