Dopo 25 anni di reclusione, il boss mafioso Giovanni Brusca è stato scarcerato. Il fatto ha suscitato reazioni contrastanti nell’opinione pubblica, reazioni abbastanza comprensibili, considerando i delitti di cui Brusca si è macchiato. Dei circa 150 omicidi di cui sarebbe responsabile, basta citarne due tra i più efferati: l’uccisione e lo scioglimento nell’acido del piccolo Giuseppe Di Matteo e la strage di Capaci.
Meno comprensibili sono invece le dichiarazioni di alcuni esponenti politici che hanno manifestato sorpresa se non contrarietà verso il provvedimento della magistratura. Non sono reazioni comprensibili dal momento che questi esponenti politici sanno bene come stanno le cose, o almeno dovrebbero saperlo. Se non lo sanno o, com’è più probabile, fanno finta di non saperlo, questo aggrava non di poco la loro posizione.
Quello che si dovrebbe tener presente è, ovviamente, la complessità del fenomeno mafioso. Per decenni lo Stato è stato impegnato nella difficilissima opera della repressione della mafia, ma purtroppo i risultati di questo generoso e anche – bisogna ricordarlo – eroico impegno sono stati poco significativi. Era già estremamente difficile assicurare alla giustizia i cosiddetti pezzi grossi della mafia, ma quand’anche si riusciva in ciò, si poteva vedere che la mafia continuava a prosperare. Non soltanto, ma si poteva vedere addirittura che questi pezzi grossi anche dal carcere trovavano la maniera di continuare a dare ordini; insomma, a guidare l’organizzazione criminale.
Le misure adottate furono l’inasprimento delle pene, l’istituzione di un pool antimafia di magistrati con alte competenze in questo tipo di reati, un regime carcerario come il 41bis che assimilava i mafiosi ai terroristi. Con questo, si consideravano i reati di mafia rilevanti non soltanto dal punto di vista dell’ordine pubblico ma per la stessa sicurezza dello Stato.
Non furono però queste misure, per quanto estremamente importanti, a rappresentare una vera svolta nella lotta alla mafia. Anzi, purtroppo, la mafia fu capace di accrescere la propria aggressività. La svolta decisiva fu di carattere culturale rispetto all’idea stessa di mafia che si aveva, alla sua natura di corpo sociale con un elevato livello di complessità e di capillarità. In altre parole: uno Stato nello Stato.
Se le cose stavano così, si capisce bene che nel contrasto alla mafia quello che appariva di primaria importanza era, come si disse, mettere le mani sui patrimoni della mafia. Anzi, si potrebbe dire meglio, intaccare le finanze della mafia. Perché un’organizzazione che si struttura alla maniera di uno Stato si regge se ha finanze proprie. Non a caso è a questo livello che si sono cominciati a vedere i primi risultati.
Altra cosa che si rivelerà fondamentale è stata quella di trovare la maniera di combattere l’omertà, un fenomeno che è come un voto, un giuramento di fedeltà che va ben oltre i confini dell’organizzazione mafiosa vera e propria, uno strumento di sottomissione potentissimo, imposto a tutti e poi condiviso dall’intera società.
Qui veniamo nello specifico al caso Brusca. Perché con la decisione del boss di collaborare con la giustizia, con la decisione cioè di “parlare”, ha cominciato a vacillare quel granitico muro di omertà che la mafia aveva eretto attorno a sé. È evidente che se Giovanni Brusca spiffera tutto quello che sa, questo ha un significato ben diverso dalla confessione di un comune collaboratore di giustizia. Bisogna tenere ben presente che la confessione di un boss potrebbe avere come conseguenza quella di sciogliere quel giuramento di fedeltà al quale la società era stata sottomessa, quel voto di omertà che legava strettamente la società alla mafia.
Non si può certamente dire che la mafia sia stata con questo sconfitta. Ma da questo momento in poi sarà più difficile ottenere la complicità del silenzio, sapendo che la stessa organizzazione mafiosa potrebbe inaspettatamente puntare il dito contro di te, potrebbe rivelare che anche tu hai visto qualcosa, che anche tu c’eri, che anche tu sapevi.
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