Quando il male genera altro male, ci vuole un amico. La storia di G.

Una storia difficile dei tempi attuali in cui un sacerdote può costituire la salvezza della vita di un uomo.

«Quando qualcuno qui in carcere inizia a raccontare la sua vita prima del carcere, la storia comincia sempre con la solita frase: “Ero un ragazzo normale.” Ma che cos’è una vita normale? Che si prova? Io non lo so. Lo vorrei chiedere ogni volta che sento quella frase, ma non ci riesco. E quelli che dicono di avere vite normali sembrano così felici». Con queste parole, G. inizia il suo racconto in una stanzetta della Casa circondariale di Matera. Io sono seduto di fronte a lui e provo a trascrivere ogni sua parola facendo correre la penna su dei fogli bianchi. Non sono più abituato a scrivere così velocemente a mano, ma registratori e smartphone sono rimasti nel gabbiotto all’ingresso.

«A scuola, per esempio, io mi sono sempre sentito diverso. I discorsi dei miei compagni di classe, le loro battute, i doppi sensi… correvano troppo veloci. Io cercavo di afferrarle, ma nella mia testa arrivava solo l’eco delle loro risate. E veloci come le loro parole arrivavano gli schiaffi. Gli sputi. Gli spintoni». Avevo studiato il caso di cronaca che aveva coinvolto G. prima di incontrarlo, avevo visto video atroci su Youtube che lo ritraggono e che mi avevano lasciato digiuno. Sento un po’ di nausea, mi ero giustificato con mia moglie quella sera. L’avevo immaginato G. con lo sguardo gradasso, i capelli duri di gelatina, la faccia scocciata. Invece mi accoglie un ragazzone un po’ goffo, timido, a tratti balbetta. «Decidi tu, da dove vuoi partire?» Parte dalla scuola, ancora una volta mi spiazza, non me l’aspettavo. Ma per proseguire nel racconto di quella che è stata l’intervista più cruda e sconvolgente della mia carriera, occorre una premessa.
 
Della storia che ha portato G. in carcere ne hanno parlato tutti i telegiornali nazionali; a quel caso di cronaca sono state dedicate ore e ore di infinite trasmissioni televisive; ci sono state marce con migliaia di persone per strada; ne hanno addirittura fatto uno spettacolo teatrale. Ma mai nessuno ha chiesto a G. «Perché lo hai fatto?». Eppure, in una delle sue chiacchierate con padre Gianparide Nappi, il cappellano del carcere di Matera, G. ha sentito il bisogno di raccontarglielo. Non la ricerca di un movente o di un’attenuante non riconosciuta, ma un grido di liberazione che non aveva ancora trovato voce. Uno tsunami di parole che lascia entrambi con gli occhi lucidi e una consapevolezza nuova: da questa storia orribile può nascere qualcosa di buono, c’è lì fuori qualcuno a cui potrebbe far bene ascoltarla. Così il cappellano propone a G. di incontrare un giornalista di S-Catenati, il giornale nato dall’associazione di volontariato penitenziaria che lavora con la cappellania.

«Passavano gli anni, ma i calci, gli sputi, le spinte non diminuirono. Anzi, aumentarono. Tanto che a un certo punto i professori non trovarono soluzione migliore che invitare i miei genitori a farmi lasciare la scuola. “Il lavoro in campagna lo aiuterà,” dissero. Avevo sedici anni, fu il mio ultimo giorno di scuola». Mi racconta dei suoi anni in campagna sereno, i giri in trattore e quella sua innata passione per i motori e le auto. Così puntuale il giorno del suo diciottesimo arriva fiammante la macchina che aveva sempre sognato: sarebbe stato il suo riscatto, con quella avrebbe certamente trovato un amico, finalmente. Non sbagliava, forse: “Ero il più grande della comitiva, l’unico con la macchina. Mi facevano sentire importante. Erano i più ganzi del paese, non degli sfigati come me.”

Iniziano le “bravate” e una in particolare ci fa avvicinare piano al dramma. «All’inizio andavamo dal Pazzo (un anziano solo n.d.r.) solo per farci due risate. Poi, piano piano, il campanello diventò troppo poco. Arrivò il primo calcio alla porta. E anche io ruppi una finestra. Ricordo le sue urla di paura. Era notte. Giorno dopo giorno lo scherzo divenne un incubo. Una spirale che legittimava ogni volta il passo successivo. E quello dopo ancora. Entrammo in casa sua più volte. Schiaffi. Calci. Bastonate. Mi chiamavano cacasotto perché non avevo il coraggio di colpirlo. Ma avevo il telefono con la fotocamera migliore. E questo bastò per ritagliarmi il ruolo che mi riusciva meglio. Filmavo tutto. Poi condividevo i video su WhatsApp. L’adrenalina di quei momenti continuava a pompare eccitazione e risate anche dopo ore. Ogni iniezione di quella strana droga virtuale pretendeva dosi sempre maggiori. E noi, ciechi, obbedivamo. Ridevamo. Ci divertivamo. Ma per me era diverso. Nello schermo del mio telefono non c’era il Pazzo. C’ero io. I calci, gli sputi che rivedevo nei video non erano diretti a lui, ma al fantasma del mio futuro. In quei video, il Pazzo ero io. Sarei diventato come lui. Fra trenta, quarant’anni. Se non fosse stato per l’aiuto dei miei nuovi amici. Rivedevo quei video compulsivamente. Ogni sputo allontanava quel fantasma. Ogni calcio cancellava la possibilità che potessi diventare come lui. Nel mio schermo vedevo arretrare, impotente, il futuro che mi spaventava più di ogni altra cosa». Quando le forze dell’ordine interverranno troveranno l’anziano legato ad una sedia, accompagnato in ospedale morirà poco dopo. In paese tutti sapevano, dice qualcuno, si parla anche di un altro anziano vittima delle incursioni di un’altra gang.

«Quando ci trovammo in commissariato con gli altri, tutti indagati, mi riconobbero a malapena. Parlavano a bassa voce. Si cercavano con lo sguardo. Loro. Io? Io, senza la mia macchina, non servivo più a niente». In carcere cambia continuamente cella, nessuno vuole stare con lui, finché non arrivano le minacce. «Ero un cancro. Contagioso. Da estirpare. Una volta un detenuto, per rinforzare quello che evidentemente io non capivo, ha tirato fuori una spilla. O forse era una lametta. Non lo so con precisione. Mi ha detto: Qua fai troppo schifo. Te ne devi andare proprio da questa città. Se no esci con i piedi davanti».

Viene spostato nella Casa circondariale di Matera, qui conosce fra Gianparide. «Qui sto meglio, i volontari, fra Gianparide… non passo più le mie giornate soltanto a piangere. Ho ricominciato ad andare a scuola, non vedo l’ora di diplomarmi. Che bella la scuola! Eppure, ho ancora paura, ma una paura diversa. L’altro giorno ero sul punto di crollare, la speranza qui è faticosa, soprattutto quando pensi alla vita fuori. Pensavo che quando potrò uscire sarò troppo grande per trovare un amico, nessuno più vorrà avvicinarsi a me. Ho fatto cose terribili, che mi vergogno anche solo a ricordare, ma la verità, non sapevo come dirlo, ma fra Gianparide mi ha aiutato a capirlo, è che io volevo soltanto un amico».

Un sacerdote a volte può essere la salvezza delle persone!

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Luca Iacovone

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