Quando a Messa si sta come a uno spettacolo

L’allarme dei liturgisti: le assemblea sono diventate platee come testimonia l’approccio ai riti virtuali. E le parrocchie hanno perso il legame con il territorio.

Nell’agenda ecclesiale la pandemia sarà ricordata anche come il tempo delle Messe virtuali. Eppure le celebrazioni sullo schermo sono qualcosa di «già visto». Anche perché «ormai le nostre assemblea hanno cominciato a somigliare a platee che, anche quando animate da una certa complicità partecipativa, hanno assimilato gli schemi mentali tipici dello spettacolo», sostiene il teologo don Giuliano Zanchi, direttore della Rivista del clero italiano e responsabile scientifico della Fondazione Bernareggi, “braccio” culturale della diocesi di Bergamo. Poi aggiunge: «Non è un caso che i molti che sono passati dalla Messa in presenza a quella in video non abbiano percepito una vera differenza». Spettatori dell’Eucaristia, quasi fossimo a teatro. Ma c’è dell’altro. Si sta affermando una «crescente ritirata del radicamento territoriale» delle comunità cristiane. E «molta gente di fede non trova più le forme per poter essere anche gente di chiesa», dice il teologo. Risultato? «La Messa torna a essere esperienza minoritaria», prosegue don Zanchi. Con il Covid che ha “svuotato” le celebrazioni.


L’analisi del sacerdote lombardo scuote la Settimana di studio dell’Associazione dei professori e dei cultori della liturgia ospitata a Villa Cagnola di Gazzada, in provincia di Varese ma nell’arcidiocesi di Milano. Un appuntamento che torna anche fra le limitazioni anti-Covid. Al centro dell’edizione numero 48 il tema dell’“assemblea eucaristica” letta anche alla luce dell’emergenza sanitaria. «Questo frangente complesso segnato dal coronavirus ha messo in rilievo alcune mancanze e carenze che erano già precedenti», afferma don Paolo Tomatis, presidente dell’associazione. Guardare alla “gente” della Messa significa prendere atto che chi partecipa alle liturgie è lo specchio di una società in cui non c’è più una fede permanente ma «sperimentale e itinerante». «Non siamo più di fronte a un’assemblea organica e compatta, come quella tridentina, dove il precetto festivo si assolveva andando a Messa nella propria parrocchia – afferma Tomatis –. Abbiamo invece un’assemblea più fluida che condiziona le diverse modalità di partecipazione». Compresa quella attraverso la tv o il web. Occhio però agli «effetti collaterali» dei riti trasmessi, come li definisce don Lorenzo Voltolin, parroco nella diocesi di Padova e docente alla Facoltà teologica del Triveneto: dal «fai-da-te» alla «sovrapposizione mediatica». «Non tutte le Messe in televisione oppure online sono uguali – chiariscono Tomatis e Voltolin –. La comunità reale, con il proprio campanile e il proprio pastore, è il referente fisico anche della comunità digitale. Per questo è bene che la mediazione della Rete o della tv assicuri il contatto con il corpo della propria comunità». In pratica, meglio seguire la Messa che viene proposta in diretta dalla parrocchia di appartenenza.


Invita a non far prevalere il pessimismo l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, che ha concluso la Settimana. «Il Covid ha mortificato molto nelle celebrazioni – sottolinea – ma ha anche valorizzato qualche aspetto, almeno per quanto riguarda l’accoglienza». Tuttavia, allargando la prospettiva, il «messaggio» che lanciano le liturgie «non sembra raggiungere il destinatario», osserva il presule. E si assiste a un’«irrilevanza del rito» dove, come insegna il Vangelo, il seme della Parola cade su «un terreno che non produce frutto se esso non è disposto ad accogliere e custodire il buon seme stesso», ricorda Delpini. Liturgie “afone”. Ma anche reclamate. C’è chi le pretende soprattutto quando si vive in realtà piccole, di periferia estrema, dove si fa fatica a garantire la Messa domenicale anche perché i preti mancano. «C’è prima di tutto il dovere della comunità di radicarsi nell’Eucaristia – riflette Tomatis – da cui scaturisce il diritto di ogni battezzato all’Eucaristia stessa. Là dove questo non è possibile, potrebbero essere riscritti ad esempio i confini della comunità per averne una più ampia».


Certo, tutto presuppone quella partecipazione attiva e consapevole, indicata dal Vaticano II, che è criterio per comprendere in profondità il significato teologico della Messa. Da qui il richiamo alla «sacramentalità dell’assemblea» evidenziata da don Roberto Repole, docente di teologia sistematica alla Facoltà teologica di Torino, durante il percorso della Settimana. «Anche nelle più piccole assemblee il Signore si fa presente – sottolinea il presidente dell’associazione –. A partire da questa consapevolezza, si tratta di fare in modo che ogni assemblea eucaristica renda visibile il mistero di Cristo e della Chiesa. Quindi l’assemblea non è soltanto il soggetto dell’Eucaristia, ma fa parte del mistero stesso che si manifesta nelle persone, che in carne e ossa, con i loro limiti e le loro storie, la formano».

Nelle parrocchie italiane il nuovo Messale è arrivato lo scorso novembre, in mezzo al “terremoto” della pandemia, quando le celebrazioni erano – e ancora oggi lo sono – condizionate dalle misure anti-Covid. E nella Settimana di studio dei professori e dei cultori di liturgia la rinnovata traduzione del libro ha fatto da cornice alle riflessioni sull’assemblea eucaristica. «Ci siamo posti qualche domanda: la nuova edizione del Messale è un testo per l’assemblea o del prete? E la Messa è quella cosa che fa il sacerdote oppure è l’azione di tutta la comunità?», spiega don Paolo Tomatis, che ha fatto parte del gruppo Cei che ha concluso la redazione del libro liturgico. Le risposte sono scontante. «Il Messale – afferma – è certamente per l’assemblea perché scandisce la partecipazione attraverso gesti e parole che coinvolgono tutti. Però bisogna farlo ben funzionare. Il volume è molto più ricco di azioni comunitarie di quanto appare. È opportuno riscoprirle. Penso all’offerta dei doni da parte dei fedeli o al canto comunitario o ancora alla processione per la Comunione magari da ricevere nella pienezza delle due specie». E l’idea di un’omelia dialogata? «Può avvenire in assemblee particolari, come i gruppi di giovani. Non è opportuna durante le liturgie parrocchiali – puntualizza Tomatis –. Benché l’etimologia della parola “omelia” rinvii al dialogo, essa è una comunicazione orizzontale, ossia fra il predicatore e l’assemblea, ma a servizio di una comunicazione verticale, cioè del dialogo fra Dio e il suo popolo».

Di Giacomo Gambassi dal sito di Avvenire di giovedì 2 settembre 2021

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