Cosa festeggiare in questo primo maggio se oltre il 10% degli italiani sono disoccupati? Cosa più commemorare, nei nostri Paesi culturalmente e socialmente evoluti, se tutti i lavoratori godono ormai di tutte quelle assicurazioni su orario (un tempo si parlava di “otto ore”) e condizioni di lavoro che furono i nuovi diritti festeggiati a Chicago il primo maggio 1867?
Poi, il primo maggio di 19 anni dopo, sempre a Chicago, sei poliziotti e tanti manifestanti di cui si perse il conto morirono nei tumulti di Haymarket Square per i lavoratori degli altri Stati d’America dove le “otto ore” erano ancora un miraggio. In Italia, le “otto ore” furono sancite con il con il Regio decreto legge n. 692 del 1923.
Una festa istituita prima in America, poi in Francia, pian piano dappertutto. Illuminata nel 1955 dalla scelta di papa Pio XII di festeggiare il primo maggio anche S. Giuseppe, col titolo di “lavoratore”, perché ogni lavoratore da lui riscoprisse il significato cristiano del lavoro.
L’augurio, allora, che la festa del lavoro di quest’anno – intitolato a S. Giuseppe – ci illumini sempre più sul senso cristiano del lavoro.
Mediante il lavoro (sia esso manuale o intellettuale), Dio chiama l’uomo a partecipare alla sua opera creatrice nel mondo.
Il lavoro cristiano salva l’uomo e la società: il lavoratore cristiano redime se stesso offrendo la fatica del proprio lavoro ed attua un servizio che è risposta concreta ai bisogni della società.
“Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2,15): dalla notte dei tempi, come connaturato con la stessa entità dell’uomo, come una legge antropologica innata, le scritture mostrano il lavoro come custodia amorevole del nostro mondo.
Pur nella diversità delle vocazioni, ogni uomo ha la vocazione al lavoro: S. Paolo sottolineava che lavorava “con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno” (2 Tes 3,8) e mette in guardia i tessalonicesi da coloro che vivevano nell’agitazione e nella pigrizia dicendo: “Chi non vuol lavorare neppure mangi!” (2 Tes 3,10).
Il lavoro rende “capaci di sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; diventa occasione di realizzazione non solo per se stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia”, dice papa Francesco nella lettera apostolica “Patris corde” (PC, 6).
Lavorare cristianamente è anche sentire la responsabilità verso chi un lavoro, suo malgrado, non ce l’ha e inventarsi modalità che generano nuovo lavoro. “Rivedere le proprie priorità in considerazione della perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19” (ibidem)”, nella consapevolezza del fatto che “una famiglia dove mancasse il lavoro è maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e disperante del dissolvimento” (ibidem).
Tanti sono i testimoni di santità nel lavoro. Tra tanti che nella vita hanno incarnato il “vangelo del lavoro” sarà posto nei prossimi giorni alla nostra attenzione il martire Rosario Livatino, l’agrigentino “giudice ragazzino”, assassinato dalla mafia nel settembre 1991, che il 9 maggio sarà beatificato nella cattedrale di Agrigento.
E allora, buon lavoro “cristiano” a tutti in questa primavera un po’ timida e bizzarra, in cui finalmente vediamo un po’ di luce, con il 10% dei lucani che hanno completato il ciclo vaccinale e i bambini e i ragazzi che – pur bardati di mascherine – hanno ripreso a popolare le nostre strade per andare a scuola in quest’ultimo mese per molti decisivo.
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