Il termine “vacanza” è presente nel vocabolario della lingua italiana dall’anno 1525, secondo l’attestazione dello Zingarelli. Con ogni probabilità è uno dei tanti vocaboli mutuati dalla terminologia ecclesiastica. Che possa essere così ci viene suggerito dalla fonte più autorevole della lingua italiana, come è quella di Dante Alighieri e della Divina Commedia. Al Canto XVI del Paradiso, vediamo il Poeta incontrare Cacciaguida, suo antenato, che gli racconta della città di Firenze nei tempi andati e dell’origine dei tanti mali che avrebbero afflitto la città toscana nei secoli successivi. Tra questi, la sciagura della “chiesa vaca” per il fatto che i vescovi della città erano soliti andare “a consistoro” con i potenti, anziché rimanere a fianco al popolo cristiano. In una delle sue terzine, Dante scrive: «Così facieno i padri di coloro / che, sempre che la vostra chiesa vaca, / si fanno grassi stando a consistoro».
È il problema, che sempre ha interessato la vita della Chiesa, della residenza dei vescovi e delle troppe sedi episcopali vacanti. Un problema avvertito, come si è visto, già ai tempi di Dante Alighieri ma che sarà affrontato con decisione al Concilio di Trento, aperto nel 1545. L’attestazione dello Zingarelli, che risale ad appena un ventennio prima di questa data, ci fa ritenere che l’uso del termine “vacanza” sia cominciato a circolare nella lingua volgare proprio nel periodo dei lavori preparatori del Concilio.
Tanto dibattuto fu in sede conciliare il tema della residenza dei vescovi che a un certo punto i lavori del Concilio andarono incontro a una fase di stallo e dovettero essere interrotti; il Concilio di Trento fu caratterizzato da numerose interruzioni e dovettero passare quasi vent’anni per arrivare alla sua conclusione.
Alla fine si giunse a una mediazione che portò l’obbligo della residenza, pur non legato al diritto divino, a un “dovere grave” per il vescovo. Una gravità espressa proprio dal termine vacanza, che indica qualcosa che rimane vacante, cioè priva del suo contenuto, dal momento che ciò che dà sostanza alla Chiesa è il legame col vescovo, nel quale legame si rende viva la presenza stessa di Cristo.
Per nessun motivo quindi il vescovo avrebbe potuto lasciare la sede diocesana, se non per un limitato periodo di vacanza. Periodo che si stabilì non dovesse eccedere la durata di un mese. È anche questo frutto di un compromesso, una soluzione con la quale non si vuole tanto vincolare i vescovi a un diritto divino ma con cui si cerca almeno di evitare che essi si dedichino ad altre attività che potrebbero diventare prevalenti rispetto al ministero episcopale e si cerca di tenerli lontani dalle beghe dei potenti, come si può vedere nell’affresco sull’Allegoria del Concilio di Trento, di Andreas Brugger.
La norma è talmente rigida che quando, più recentemente, sul vescovo graverà anche il dovere di partecipare ad attività collegiali, come le Conferenze episcopali, la Santa Sede è intervenuta a disciplinare ciò, disponendo per esempio che anche in questo caso il vescovo è giustificato a lasciare la sede soltanto quando la sua presenza negli organi collegiali sia ritenuta necessaria o richiesta da una superiore autorità. In altri casi, come quando il vescovo si assenta dalla sede diocesana per attività accademiche o scientifiche, per partecipare a conferenze o dibattiti, questi giorni di assenza devono essere scalati dal mese di vacanza concesso.
Nel tempo, l’uso di questa casistica – come si vede piuttosto complessa – passò dall’ambito strettamente ecclesiastico, all’intera vita civile. Ecco dunque configurarsi la vacanza come periodo, generalmente di un mese e generalmente nel periodo estivo, nel quale si lascia “vacante” la propria residenza abituale per andare in villeggiatura.
Oggi, insieme all’espressione “andare in vacanza”, si usa dire “andare in ferie”. Anche in questo caso assistiamo all’adozione di una terminologia di origine ecclesiastica.
Può sembrare infatti un controsenso che si dica “andare in ferie” se generalmente i giorni “feriali” sono quelli nei quali si lavora. Nella concezione della Chiesa i giorni festivi, come la domenica e le “feste comandate”, sono tali per diritto divino; è quindi un diritto che non necessita di un riconoscimento da parte di un’umana autorità. La quale avrebbe facoltà di assegnare giorni di riposo esclusivamente nei giorni “feriali”. Ecco dunque il datore di lavoro che “concede le ferie”. Non potrebbe, invece, concedere le festività.
È interessante a questo proposito quanto avvenne nel 1977 con la legge n.54, quando si trattò di abolire alcune festività. Ci fu un vero braccio di ferro tra la Chiesa e lo Stato italiano, in quanto il termine “festività soppresse” non è compatibile con la concezione cristiana della festa. Se la festa cristiana è “giorno del Signore” non può lo Stato abolirla o stabilire quali siano questi giorni di festa.
Anche in questo caso si cercò una mediazione. Lo Stato, più che la festa, abolì gli effetti civili di alcune festività. Per cui l’art.1 della legge in questione recita: «I seguenti giorni cessano di essere considerati festivi agli effetti civili: Epifania; S. Giuseppe; Ascensione; Corpus Domini; SS. Apostoli Pietro e Paolo».
La Chiesa provvide a spostare le feste dell’Ascensione e del Corpus Domini alla domenica successiva, ma ovviamente non potevano essere spostate alla domenica le feste di S. Giuseppe o dei Santi Pietro e Paolo, essendo la domenica dedicata esclusivamente al Signore. Il braccio di ferro continuò ancora a lungo sulla festa dell’Epifania che tornò finalmente ad avere anche effetti civili nell’anno 1985.
A tutti, buone vacanze. O ferie, che dir si voglia.
Scrivi un commento