La denuncia del cardinale Pietro Parolin segretario di Stato, durante la veglia organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio per la Giornata mondiale del rifugiato
«Una tragedia che da anni bussa alle porte di casa nostra e soprattutto alla porta della nostra coscienza. E che potrebbe ancora più tristemente degenerare in un vero e proprio naufragio di civiltà»: quello del ricco mondo occidentale di fronte al dramma delle migrazioni nelle acque del Mediterraneo. Prende spunto dal brano evangelico della tempesta sedata (Mt 8, 23-25) la denuncia del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, che ieri sera ha presieduto l’annuale veglia “Morire di speranza”, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio in vista della Giornata mondiale del rifugiato. «Troppa violenza, troppe strumentalizzazioni. E tanta indifferenza — ha scandito dall’altare della basilica romana di Santa Maria in Trastevere —. Il Mare Nostrum rischia di trasformarsi in un Mare Mortuum», ha aggiunto rilanciando le parole di Francesco all’Angelus di domenica scorsa, quando ha sottolineato che «il Mediterraneo è diventato il cimitero più grande dell’Europa».
E al Pontefice rimanda anche il passo del Vangelo commentato dal porporato all’omelia: lo stesso che ispirò Papa Bergoglio il 27 marzo 2020 durante lo storico momento straordinario di preghiera per invocare la fine della pandemia. In un ribaltamento di prospettiva «ora sembra accadere il contrario» rispetto a quanto avvenne nel mare di Galilea: «Siamo noi a dormire, non Gesù — ha spiegato il cardinale Parolin —. Ed è lui a cercare di svegliarci dal sonno dell’indifferenza, perché ci riconosciamo fratelli e sorelle di tutti». Del resto, proprio «sulla questione migratoria il rischio è quello di rimanere assopiti, per poi destarsi di colpo e per breve tempo quando la cronaca ci mette innanzi agli occhi immagini scioccanti, come quelle recenti dei bambini riversi sulla spiaggia di Zuwara, in Libia». Da qui le ripetute esortazioni della Chiesa «a rivolgere l’attenzione ai nomi prima che ai numeri, ai volti prima che alle statistiche, alle storie di vita prima che ai nudi fatti di cronaca».
Il riferimento è al «problema rappresentato da steccati partitici difficili da valicare, che rischiano di degenerare in visioni antitetiche e politicizzate: accoglienza contro difesa dei confini, solidarietà contro sicurezza, internazionalismo contro patriottismo». Si tratta di «antinomie che fanno dimenticare la singolare concretezza di ogni persona umana» ha chiarito il segretario di Stato, ammettendo però al contempo «che, spesso, pure tra i credenti, ci si lascia guidare da convinzioni politiche, anziché dalla Parola radicale e spiazzante del Vangelo».
Così davanti alla tentazione di voler «prendere le distanze dagli altri», il cardinale Parolin ha fatto notare come «nella tempesta che attraversiamo» il Signore offra «una bussola, la fraternità: l’oltre di Dio rimanda all’altro del fratello. Per non perdere la rotta, né dell’umano, né del divino».
Ecco allora la conclusione della riflessione che si fa preghiera per un risveglio delle coscienze nella vecchia Europa auspicato dal porporato: affinché «la questione migratoria trovi una risposta solidale» nella cornice continentale, andando «oltre la ricerca di interessi particolari» e perseguendo «politiche volte a un’integrazione sempre più imprescindibile» .
«C’è bisogno di fermarsi — gli ha fatto eco nel saluto finale Marco Impagliazzo presidente di Sant’Egidio — non per accusare, ma per chiedere un’assunzione di responsabilità: se non si apriranno strade legali e solidali dovremo ancora assistere a tante morti. Da questa assemblea si alza un’indignazione morale per la sordità e la cecità del nostro mondo, sale un appello perché tutto questo cambi». Un grido di dolore cui si sono uniti i presenti, tra i quali — nello spirito che anima la Comunità — italiani “vecchi” e “nuovi”, migranti e rifugiati accolti con i corridoi umanitari, a rappresentare anche gli altri organismi intervenuti: la Caritas, la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, il Centro Astalli, l’Associazione Giovanni XXIII, le Acli, gli scalabriniani, l’Associazione comboniana servizio emigranti e profughi (Acse).
Sull’altare la croce di Lampedusa, a fare memoria delle vite spezzate di quanti, per terra o per mare, erano in cerca di speranza; sopra le scale del presbiterio due gigantografie sui pericoli delle traversate marittime e sulla durezza della “rotta balcanica”. Canti in italiano si sono alternati con altri in arabo e in inglese, così come le preghiere, che hanno accompagnato il ricordo dei tanti naufragi di quest’anno e la deposizione di due corone di fiori.
Di GIANLUCA BICCINI dall’Osservatore Romano del 16 giugno 2021
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