«Non molti sanno che dall’847 all’871 sorse e fiorì a Bari uno stato islamico». Con queste parole l’editore Dedalo di Bari presenta una nuova edizione del volume di Giosuè Musca, “L’Emirato di Bari”, pubblicato per la prima volta nel 1967.
Musca (1928-2005), docente all’Università di Bari, è stato un autorevole e originale storico italiano del medioevo. È stato, per esempio, il primo a riportare alla luce la figura di Beda il Venerabile, santo benedettino vissuto in Inghilterra tra il settimo e l’ottavo secolo, autore di un’importante “Storia ecclesiastica del popolo degli Inglesi”. Fino ad alcuni decenni fa, poco si sapeva di questo monaco; oggi, papa Francesco ha tratto proprio dagli scritti di San Beda il motto del suo pontificato “Miserando atque eligendo”.
Prima ancora di San Beda e ancora meno conosciuta di questa è la storia dell’Emirato di Bari. Giosuè Musca, nonostante definisse se stesso un “islamologo dilettante” e nonostante la scarsità di documenti storici disponibili, è riuscito a ricostruire con grande chiarezza le vicende di questo insediamento saraceno nel meridione italiano.
Quello barese del IX secolo fu l’unico emirato nell’Italia continentale, un principato indipendente, retto da un emiro con pieni poteri e formalmente riconosciuto dalle massime autorità islamiche di Baghdad, all’epoca principale centro spirituale dell’islam.
Molto simile a ciò che oggi chiamiamo Stato islamico, l’Emirato fu qualcosa di diverso da quello analogo che si era creato in Sicilia. L’isola, dopo che gli arabi avevano conquistato Palermo nell’831, era retta anche in questo caso da un emiro, ma gli arabi di Sicilia, scrive Musca, «dipendevano dagli Aghlabiti di Tunisia. Questi ultimi non seguivano nel diritto pubblico la scuola hanafita, seguita invece dai califfi abbasidi di Baghdad, che come diretti discendenti del Profeta erano più rigorosi sugli aspetti formali della religione».
L’Emiro di Bari ottenne, scrive sempre Giosuè Musca, «la regolare investitura di wālī, cioè di prefetto a capo di una provincia dell’Impero Abbaside». Era un riconoscimento di non poco conto; senza del quale, per esempio, un emiro non aveva il diritto di convocare la preghiera pubblica del venerdì. Grazie a questa investitura, l’Emiro inoltre, scrive Musca, «costruì a Bari una moschea gami, cioè una cattedrale musulmana».
Le frammentarie fonti medievali rivelano ben poco dei territori occupati dai saraceni; ma, secondo lo studioso barese, questi dovevano comprendere con ogni probabilità le provincie di Bari, di Taranto e di Matera. Un territorio sufficientemente ampio e in posizione strategica, soprattutto per le vie di comunicazione. Una posizione che consentiva ai saraceni frequenti scorrerie in tutto il Mezzogiorno, alla ricerca di ricchi bottini; non risparmiavano, in queste razzie, nemmeno i calici della liturgia e i sacri arredi.
Principale e di gran lunga lucroso obiettivo delle razzie dell’emiro barese fu la tratta degli schiavi cristiani, provenienti prevalentemente dalle terre longobarde del beneventano, la “Longobardia minor”. Venivano ridotti in schiavitù uomini, donne e soprattutto bambini che, strappati alle loro famiglie, erano educati secondo i princìpi del Corano per essere sottomessi all’islam. Questi schiavi, avviati lungo la via Appia verso il porto di Taranto per essere imbarcati. Di qui venivano destinati al nord Africa e alla Spagna islamica.
Nelle cronache di tre pellegrini che dovevano imbarcarsi a Taranto alla volta dell’Egitto si può leggere che nel porto tarantino presero posto su una delle sei navi in partenza verso Alessandria e che trasportavano in totale novemila schiavi. Le fonti storiche riferiscono che queste deportazioni erano piuttosto frequenti. Musca scrive che è difficile credere che le navi dell’epoca potessero imbarcare un numero così elevato di persone, anche se doveva comunque trattarsi di un fenomeno di proporzioni impressionanti.
L’ultimo dei tre emiri che si succedettero al comando dell’emirato di Bari fu il potente Sawdan, abile e astuto condottiero che seppe tenere testa ai frequenti tentativi di riconquista da parte degli eserciti cristiani: longobardi, franchi e bizantini. Finché, dopo il saccheggio da parte dei saraceni della basilica di San Pietro a Roma e la profanazione della tomba del principe degli apostoli, intervenne l’imperatore franco Ludovico II. Il quale occupò il territorio che va da Matera a Oria per interrompere le comunicazioni tra Bari e Taranto, mettendo a ferro e fuoco la città di Matera che fu completamente distrutta.
«Ludovico II dette l’assalto decisivo alle mura di Bari» scrive Musca, «e il 3 febbraio 871 le truppe franche e longobarde entrarono finalmente in città, facendo prigioniero l’Emiro Sawdan». Finiva così, dopo 24 anni, l’esperienza dello “stato islamico” barese che tanto profondamente aveva sconvolto la società meridionale.
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