La grande lezione di san Paolo e di Dostoevskij.
Lo scorso 10 novembre Papa Francesco ha terminato un ciclo di 15 catechesi dedicate al commento alla lettera di san Paolo ai Galati iniziato il 23 giugno e incentrato su alcuni temi fondamentali tra cui quello della libertà, la vera libertà cristiana. È in questa lettera infatti che l’apostolo afferma che noi tutti siamo «chiamati alla libertà» e affronta il grande tema del rapporto tra la Legge e lo Spirito, invitando i suoi discepoli a passare dall’amore della legge alla legge dell’amore. È questo un tema che sta molto a cuore a Papa Francesco che ha voluto con forza ricordare che la novità del Vangelo di Cristo è stata ed è portatrice di un processo di liberazione, personale e sociale, paradossale quanto autentico, che permette ad ogni uomo che lo abbraccia, di vivere nella gioia e in pienezza.
Questo messaggio è quanto mai oggi di grandissima attualità, fuori e dentro il perimetro della Chiesa cattolica. Nella catechesi del 6 ottobre il Papa ha affermato che la libertà «è un tesoro che si apprezza realmente solo quando la si perde. Per molti di noi, abituati a vivere nella libertà, spesso appare più come un diritto acquisito che come un dono e un’eredità da custodire. Quanti fraintendimenti intorno al tema della libertà, e quante visioni differenti si sono scontrate nel corso dei secoli!». E così ha proceduto a smontare in quella cateschesi, e nelle successive, alcuni di quei fraintendimenti. Ad esempio il 20 ottobre ha precisato che «la libertà non è “fare quello che pare e piace”. Questo tipo di libertà, senza un fine e senza riferimenti, sarebbe una libertà vuota. E infatti lascia il vuoto dentro: quante volte, dopo aver seguito solo l’istinto, ci accorgiamo di restare con un grande vuoto dentro e di aver usato male il tesoro della nostra libertà, la bellezza di poter scegliere il vero bene per noi e per gli altri. Solo questa libertà è piena, concreta, e ci inserisce nella vita reale di ogni giorno». Sempre nella stessa udienza ha preso in esame «una delle concezioni moderne più diffuse sulla libertà» espressa nella nota affermazione “la mia libertà finisce dove comincia la tua”. Una frase ripetuta spesso meccanicamente specialmente dalle giovani generazioni che alla fine può essere tradotta anche così: “Io sono libero di fare quello che voglio, quello che mi pare e piace, basta che non reco fastidio agli altri, perché quando arrivano gli altri lì finisce la mia libertà”. Questa però è la “consacrazione” dell’individualismo dilagante nella società contemporanea. Il Papa lo dice chiaramente: «Ma qui manca la relazione! È una visione individualistica. Invece, chi ha ricevuto il dono della liberazione operata da Gesù non può pensare che la libertà consista nello stare lontano dagli altri, sentendoli come fastidi, non può vedere l’essere umano arroccato in sé stesso, ma sempre inserito in una comunità. […] Diciamo e crediamo che gli altri non sono un ostacolo alla mia libertà, ma la possibilità per realizzarla pienamente. Perché la nostra libertà nasce dall’amore di Dio e cresce nella carità».
Il punto è che, come osserva il Papa, su questa bella parola, libertà, si sono accumulati molti equivoci; è vista ad esempio come qualcosa che manca, manca sempre, un bene che abbiamo perso (perché qualcuno, l’altro, ce l’ha tolto) quindi da riconquistare, ad ogni costo, sotto forma di diritti da rivendicare. Un fine a cui sacrificare ogni altra cosa. Una cosa grande, forte, la libertà, che non può che crescere, allargarsi e così dare forza e felicità ad ogni uomo. Questo però è un miraggio più che un sogno, sempre secondo le parole del Papa. Forse allora bisogna mettere a fuoco meglio la nostra visione della libertà e capire che essa potrebbe anche essere vista come un mezzo piuttosto che un fine e quindi costringerci alla domanda sul buono o cattivo uso che abbiamo fatto della libertà: come l’abbiamo “spesa” la nostra libertà? Forse dobbiamo riflettere sul fatto che la libertà umana è un bene prezioso quanto fragile, che si può perdere facilmente.
Nel corso di questi cinque mesi in cui il Papa ha offerto ai fedeli la sua riflessione sulla Lettera ai Galati c’è stato anche il viaggio a Budapest e Bratislava. Nella città slovacca il Papa, parlando ai membri del Consiglio ecumenico delle Chiese, il 12 settembre ha messo in guardia sulla fragilità della libertà, un bene che si può perdere per fattori esterni, come una dittatura, ma, in modo più facile e più ricorrente, per la propria debolezza, congenita nell’uomo che lo rende sensibile alla «tentazione di ritornare schiavi, non certo di un regime, ma di una schiavitù ancora peggiore, quella interiore». E ha quindi ricordato un romanziere a lui molto caro, Dostoevskij, e il suo celebre racconto, la Leggenda del Grande Inquisitore inserito nel romanzo I fratelli Karamazov. Il terribile protagonista di quel racconto arresta Gesù e lo accusa di aver voluto donare agli uomini la libertà, un gesto insensato perché «gli uomini sono disposti a barattare volentieri la loro libertà con una schiavitù più comoda, quella di assoggettarsi a qualcuno che decida per loro, pur di avere pane e sicurezze. E così arriva a rimproverare Gesù di non aver voluto diventare Cesare per piegare la coscienza degli uomini e stabilire la pace con la forza. Invece, ha continuato a preferire per l’uomo libertà, mentre l’umanità reclama “pane e poco altro”». Parole sferzanti perché molto vere.
Per tutti questi motivi è apparso opportuno pubblicare, oggi e lunedì prossimo, al centro di questo giornale, il testo della Leggenda del Grande Inquisitore, un testo che ancora oggi si rivela profetico e quindi urgente.
Di ANDREA MONDA dall’Osservatore Romano del 20 novembre 2021
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