Le sue parole scuotono il cielo. Flannery O’Connor

La scrittrice americana, dagli inizi nel piccolo giornale della diocesi di Atlanta, ha via via infiammato con la sua fede la letteratura mondiale.

Si spegneva, in un giorno di sessant’anni fa, la sofferta vita della giovane scrittrice Flannery O’Connor. Successe, lontano dai clamori, a Milledgeville, piccola città nello stato americano della Georgia, dove la scrittrice era nata e dove i più la ricordavano per la popolarità di cui godette per essere riuscita a mostrare, in un programma televisivo, la maniera per insegnare a un pollo a camminare all’indietro.

Ma, lontani dalla frivolezza dei media, quando si parla di lei, si parla d’altro. Quando si parla di Flannery O’Connor, indubbiamente tra i più grandi scrittori cristiani dell’epoca moderna, viene da chiedersi in cosa sia consistito quel suo cristianesimo. Cosa ci può mai essere di cristiano in un modo di scrivere così duro, così “violento” com’è il suo? Lei stessa ha intitolato uno dei suoi romanzi Il cielo è dei violenti.

Questo titolo è tratto da quel versetto evangelico che recita: «Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono». Quale sarà mai il senso di queste misteriose parole, apparentemente così poco evangeliche? E quale interpretazione ne dava Flannery O’Connor?

La risposta potremmo trovarla forse nello stesso Vangelo dove vediamo Cristo scacciare con violenza i mercanti dal tempio. Un atto simile di violenza ha voluto fare, con la sua scrittura, questa giovane del meridione americano che ha fatto irruzione, senza essere attesa, sulla scena letteraria mondiale. Con la sua rovente scrittura, Flannery O’Connor ha voluto scacciare dal tempio della letteratura gli abusivi, con le loro mercanzie fatte di vuoti formalismi, di velenose ideologie, di miti dispotici, di disperazioni; tutto edulcorato dal bello scrivere.

Scrivere invece, come anche leggere, fa esplodere sempre qualcosa di lacerante, di sommamente doloroso. Perché fa male dover fare i conti col proprio destino. Non è un caso se, insistentemente, i cristiani parlano di croce. La croce è stato certamente il destino di Flannery O’Connor, morta non ancora quarantenne, dopo lunghi anni di sofferenza per una malattia autoimmune, allora incurabile.

Flannery O’Connor, che aveva iniziato timidamente come redattrice nel piccolo giornale edito dalla diocesi di Atlanta, si fa via via sempre più audace. Nei suoi scritti rincorre l’uomo, il vile uomo dei nostri giorni, nel suo tentativo di fuga. Lo rincorre, lo raggiunge, lo afferra e lo pone con le spalle al muro. Lo afferra letteralmente, cioè lo mette ai ferri, tanto da non potere più sfuggire. Lo inchioda al legno della sua croce. In modo da mostrargli, voglia o non voglia, l’accecante nudità della condizione umana.

Per l’uomo vile questa sarà la sua condanna. Ma l’uomo che avrà la lealtà di rialzare umilmente il capo potrà vedere lo splendore della propria umanità crocifissa. Quale grande potere ha la croce, capace di restituire umanità ai cuori induriti!

In uno dei suoi racconti – a parte due romanzi, ha scritto prevalentemente racconti – che si intitola La schiena di Parker, Flannery O’Connor racconta di un uomo che si era fatto tatuare il corpo dalla testa ai piedi. Un giorno Parker – questo il nome dell’uomo – aveva deciso di farsi tatuare anche la spalla con l’icona «di un Cristo bizantino dagli occhi divoranti», pensando che almeno questo avrebbe attratto l’attenzione di sua moglie che aveva sempre ostentato indifferenza davanti all’“arazzo ambulante” del suo corpo tatuato.

Mentre l’artista faceva il suo lavoro, Parker se ne stava prono, «immaginando Sarah Ruth che rimaneva senza parole, folgorata dalla faccia sulla sua schiena». Invece la donna rifiuterà di rivolgere il suo sguardo all’immagine abbagliante del Cristo bizantino.

«Dio non ha faccia» protestò la moglie. «Nessun uomo vedrà mai il suo volto» gli urlò al suo ritorno e poi, lasciandosi andare a uno scatto d’ira, aveva preso una scopa e aveva cominciato a percuotere violentemente il marito Obadiah Elihue Parker.

«Parker era troppo sbalordito per resistere» conclude Flannery O’Connor. «Restò seduto e lasciò che lei lo picchiasse finché fu sull’orlo dello svenimento, e sul viso del Cristo si formarono grossi cordoni di gonfiore». L’uomo infine si alzò e andò verso la porta, barcollando.

Intanto Sarah Ruth «batté due o tre volte la scopa sul pavimento, poi andò alla finestra e la scosse fuori, per liberarla del contagio di Parker. Sempre con la scopa in mano, guardò verso il noce americano, e gli occhi le si fecero ancora più duri. L’uomo che si chiamava Obadiah Elihue era là, appoggiato all’albero, e piangeva come un bambino».

Dove la cattolica Flannery O’Connor trovava tutta questa potenza narrativa? Certamente in quel Dio in cui lei credeva, quel Dio che agita i cuori e che scuote i cieli, come sta scritto, “con gemiti inesprimibili”. Un Dio diverso da come gli uomini comunemente lo immaginano. Per esempio, scandalizzando certamente qualcuno, Flannery scriveva: «Il diavolo è il più grande credente. Solo Dio è ateo». Probabilmente con questo intendeva dire che soltanto la rivelazione cristiana ha liberato la ragione umana da quella credulità che porta a credere a qualsiasi cosa.

La fragile Flannery che percuote gli uomini con le sue dure parole potrà non piacere a molti. E certamente non piace a quanti sono ormai sottomessi alla fede eretica dei buoni sentimenti e che, nella letteratura come nella vita, non cercano che le misere consolazioni di una retorica pietosa. Dimenticando, invece, che “il cielo è dei violenti”.

Perché la letteratura, per gli uomini, non potrebbe essere altro che fedele guida al proprio destino. Un destino, di fronte al quale non si può provare altro che tenerezza, soprattutto nel passaggio doloroso cui questo destino inevitabilmente conduce. Così è stato nella scrittura di Flannery O’Connor, così è stato nella sua vita e nella sua morte.

Enorme è l’influenza che hanno avuto gli scritti di questa scrittrice georgiana. William Sessions, Bill, amico personale della Flannery O’Connor e professore emerito presso la Georgia State University, ne ha parlato in un’intervista molto bella concessa tempo fa al settimanale Tempi e che proponiamo in questo link perché tutti possano leggerla. Bill Session osservava quanto significativamente in questi decenni sia cresciuta la considerazione di questa scrittrice. «Nel 1994» ha spiegato, «il premio Nobel Kenzaburo Oe, scrittore non certo cattolico, ha ringraziato pubblicamente Flannery per i suoi scritti. Anche Cormac McCarthy ha ammesso quanto deve a Flannery. Ma non solo gli scrittori ne hanno parlato così».

Uno di questi che ne hanno parlato è indubbiamente Bruce Springsteen che dice di aver composto il celebre brano The river leggendo uno dei suoi racconti e che considera Flannery O’Connor una delle sue fonti di ispirazione. Forse perché lei ha saputo suggerire a ogni uomo che non c’è nessuna ragione per arrendersi, nel difficile cammino di uomini.

Questa scrittrice, che aveva trovato la maniera per insegnare a un pollo a camminare all’indietro, seppe trovare le parole per richiamare gli uomini alla nobiltà del proprio destino. Che, come le liete acque del fiume, senza sosta scorre.

Flannery O’Connor
Courtesy of Ina Dillard Russel Library, Georgia College and state University
https://www.georgiaencyclopedia.org/articles/arts-culture/flannery-oconnor/

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Paolo Tritto

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