Le risorse dell’associazionismo e la valorizzazione dei borghi

Dalla società civile la capacità di rianimare le periferie e di alimentare quel bene comune nel quale consiste principalmente il benessere di un popolo. Il caso Basilicata.

Torniamo a parlare dell’ultima edizione del Meeting di Rimini sul tema della ricerca dell’essenziale, o dell’essenza delle cose, come ha voluto sottolineare il padre domenicano Adrien Candiard, sempre dalla tribuna di Rimini.

Ci ritorniamo perché al Meeting si è potuto vedere, in maniera concreta, quanto sia decisivo il magistero sociale di papa Francesco sullo scottante tema delle periferie e con quanta rapidità si stia facendo strada tutto questo nel dibattito pubblico. Lo si è potuto vedere tra l’altro su un tema che coinvolge direttamente la nostra regione, quello dell’abbandono delle aree interne del territorio, della necessità di rivitalizzare i borghi rurali.

Le periferie preoccupano perché sono il segno dell’inadeguatezza di un sistema economico nel suo impatto sul territorio. Non si tratta di aree lasciate ai margini. Perché non si tratta di realtà marginali. Sono margini che crescono in maniera esponenziale fino a diventare, rapidamente e in larga misura, prevalenti nelle aree regionali. Le economie di mercato hanno necessità di polarizzare i territori, di creare cioè dei centri polarizzatori attorno ai quali va a concentrarsi la produzione.

Purtroppo, quando si va a polarizzare un territorio si generano inevitabilmente due poli: un polo positivo e un polo negativo. Questa è una legge della fisica che si apprende già negli anni della scuola primaria ed è una legge cui non possono sfuggire evidentemente nemmeno le economie di mercato. Le cui storture diventano sempre più evidenti, con le periferie – il polo negativo – che creano una crescente conflittualità.

Ma non siamo qui ad attardarci sulle storture dei sistemi economici. Perché una società sana sempre è in grado di sviluppare i suoi anticorpi. E qui vogliamo proporre l’esempio della tanto bistrattata Basilicata. Sempre una società sana sa reagire ai tentativi di marginalizzazione. 

È vero, i giovani fuggono dalle aree interne. Ma non perché queste siano inospitali per natura, come si vuol far credere. Fuggono perché, come dice ancora il papa, è stata rubata loro la speranza. Si ruba la speranza quando si condannano questi territori all’isolamento. Bisogna provare a spezzarlo questo isolamento! Si sa, per esempio, che nelle aree montane basterebbe rivitalizzare i fondovalle perché i borghi che vi gravitano possano ritornare a trovare modi di rigenerarsi.

Quello che ruba la speranza è però soprattutto l’incapacità di cogliere il positivo che la realtà offre. Ciò che di positivo possiamo vedere nella società lucana, prescindendo dunque dalle sue risorse naturali, è la grande capacità di aggregazione che i lucani hanno mostrato in questi lunghi decenni di marginalizzazione. Sono almeno cinquecento le associazioni che nel territorio della Basilicata sono attive e impegnate a rendere vivibili questi borghi. È un numero che tiene conto soltanto di quelle realtà associative con una certa visibilità ed è un numero consistente se si considera la scarsità dei centri abitati. Si può dire, per esempio, che in quasi ogni paese, anche tra i più piccoli, è presente un’associazione di volontari della protezione civile. Per la responsabilità, maturata evidentemente dopo il terremoto dell’80, di fare fronte direttamente alle varie emergenze che possono presentarsi.

Altre associazioni di volontariato operano per farsi carico dell’assistenza di chi è affetto da determinate patologie, in particolare per l’accompagnamento dei malati verso le strutture sanitarie, spesso lontane. Ma si pensi anche alla fitta rete dei donatori di sangue.

Altrettanto capillare è la realtà delle associazioni per la tutela ambientale e per la protezione di specie vegetali e animali che arricchiscono il territorio della Basilicata. Notevole è anche la realtà associativa per la salvaguardia delle tradizioni popolari, per la tutela delle minoranze linguistiche o per la valorizzazione dei dialetti la cui varietà che si presenta nel territorio lucano ha pochi paragoni nel mondo. 

L’elenco sarebbe veramente lungo come sarebbe difficile censire le attività generate da questa vivacità associativa attorno alla valorizzazione, per esempio, della gastronomia o per favorire le attività sportive. Tralasciamo anche la rete che fa capo alla Caritas o la presenza delle parrocchie. Le feste per il santo patrono grazie alle attività dei comitati sono ancora, in questi centri rurali, un significativo momento di socializzazione.

Tutto questo non si limita evidentemente al conseguimento dei fini statutari delle associazioni ma ha la capacità di difendere un tessuto sociale dal rischio della marginalizzazione e dall’isolamento. Con risultati apprezzabili se, come è noto, possiamo assistere al paradosso che si soffre meno di solitudine in questi centri isolati che nelle affollatissime metropoli.

Ma la grande domanda è questa: come tutta questa vivacità che ha indubbiamente la sua attrattiva, può generare ricchezza? Perché altrimenti, per quanto bella possa essere la realtà dei borghi, i giovani saranno ancora costretti ad andare via. Le misure per invertire questa tendenza non possono purtroppo mutare rapidamente questa problematica realtà. Non ci sono bacchette magiche. Al Meeting di Rimini sono stati individuati però degli esempi virtuosi che possono indicare la giusta strada da seguire e che nel tempo potrebbero restituire ai giovani nati nelle aree interne quella speranza che è stata loro rubata.

Sempre al Meeting è stata espressa la necessità, soprattutto da parte di Stefano Zamagni, di ridefinire il ruolo e la natura di queste realtà associative. Di quel Terzo Settore che forse non è giusto chiamare così, in considerazione del ruolo centrale che occupa nella società. Comunque, in qualunque modo la si voglia chiamare, questa realtà non può più essere indicata come il mondo del no-profit.

Perché non è vero che il mondo dell’associazionismo sociale non generi ricchezza. Anche il benessere, infatti, è ricchezza. Al pari o forse più dei profitti aziendali o dei risparmi individuali. Tra il Terzo Settore e il mondo delle imprese, se guardiamo bene, c’è una sola vera differenza: le aziende si limitano a conseguire il profitto aziendale, nel Terzo Settore, invece, si va oltre; si cerca cioè il profitto sociale. Si cerca di alimentare quel bene comune nel quale consiste principalmente il benessere di un popolo.

Salone degli stemmi – Episcopio di Matera
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Paolo Tritto

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