L’arte della sintesi

Nell’ambito della cultura figurativa della tarda antichità, l’arte propriamente cristiana, osservata nelle manifestazioni funerarie, in quelle monumentali, legate a quelle dei primi edifici di culto, e nella multiforme espressione delle cosiddette arti minori, è stata sempre percepita come un’arte di sintesi, dove l’abbreviazione sembra derivare da un doppio fine semantico: da una parte, le scene singole o scene «asciugate», sino ai limiti della riconoscibilità e della decodificazione, sembrano concepite da maestranze, che si muovono nel canale dell’arte popolare; dall’altra, tali immagini sembrano soffrire di contrazioni strategiche, con fini squisitamente comunicativi, nel senso che le semplificazioni delle dinamiche narrative virano verso una sorta di spot, con intenti pubblicitari.

Con questo, non si vuole toccare il livello della «persuasione occulta», intesa come maniera per diffondere immagini e idee, ma si vuole alludere a un «alfabetario visivo», che fa capo a un’arte augurale, in senso specialmente salvifico.

Nell’arte delle catacombe, accanto alle narrazioni distese di ispirazione biblica, come il ciclo di Giona e la storia dei giovani nella fornace, spuntano, specialmente nelle lastre incise, i simboli, che si presentano come contrazioni estreme dei contesti, che alludono al cosmo in tutti i suoi aspetti, riferibili alla pax terra marique parta.

Scorrono sulle lastre che chiudono i loculi delle catacombe i segni dell’ancora, delle navi, dei fari, dei pesci, delle colombe, degli ovini. Questi simboli rappresentano la «sineddoche estrema» e dunque le «cifre-stralcio» della tematica cosmica, a cui si attinge per trasmettere una generica condizione beatifica vissuta in terra e in mare, nel locus amoenus e lungo la navigatio vitae.

A queste immagini augurali, nel tempo e a partire dalla stagione della tolleranza, si associano i segni cristologici, ovvero i crittogrammi, arricchiti, al tramonto del IV secolo, dalle lettere apocalittiche. Ebbene, questa associazione, che rappresenta nelle lastre incise, come nelle altre arti, e dunque anche in quella monumentale, un segno identitario, una sorta di dichiarazione di appartenenza, un marchio, un sigillo cristiano, rimodula il portato semantico degli altri «simboli», che divengono «timbri» augurali, ovvero corrispettivi iconografici delle formule epigrafiche, che promettono la condizione della pace eterna.

Rimanendo nel territorio dei segni figurati incisi nelle lastre funerarie cristiane, viene voglia di paragonarli a quelli, che commentano gli epitaffi giudaici, del tipo rinvenuto nelle catacombe romane di Vigna Randanini e di Villa Torlonia. Gli uni e gli altri fungono, innanzi tutto, da corredo-arredo dei tituli funerari, talora rivestendo il ruolo di compendium scripturae, come nel caso specifico del cristogramma, ma anche dei segni stellari, del tipo della svastica, del sole, della luna, proprio per ribadire il martellante concetto della condizione oltremondana, che si vive anche nel firmamento, talora assumendo un più basso significato esornativo e alternativo alle arti maggiori, quasi per fornire alla sepoltura un qualche attributo decorativo, per sottrarla alla condanna dell’assoluto anonimato.

È in questo caso che il repertorio delle lastre incise accoglie strumenti riferibili ai mestieri svolti dai defunti, o vere e proprie sintesi bibliche o, addirittura, a scene teofanie, che imitano le sceneggiature degli edifici di culto: dalla traditio legis alla maiestas Domini, al Cristo cosmocrator.

L’alfabetario delle lastre giudaiche, invece, mantiene un più rigoroso rispetto per l’input liturgico, che presenta la torah, l’aron, la menorah, il cedro, lo shofar, la mandragola, il coltellino della circoncisione e ripete meccanicamente tali segni, che ritornano, peraltro, anche nelle pitture catacombali e nei mosaici pavimentali delle sinagoghe

Questa scelta non sembra avere un corrispettivo palmare, nelle raffigurazioni cristiane, dove, come si è detto, lo spettro figurativo è più largo. La sfera propriamente liturgica non sembra essere sfiorata, a meno che non vogliamo considerare l’accezione eucaristica dei pani, dei contenitori di vino e dei pesci. A questo riguardo vengono in mente anche quei singoli «pesci eucaristici» dipinti nel cubicolo duplex della regione callistiana di Lucina.

Di FABRIZIO BISCONTI dal sito dell’Osservatore Romano del 15 ottobre 2021

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