Un anno fa, il 24 giugno 2022, la Corte suprema degli Stati Uniti emetteva la sentenza Dobbs v. Jackson, approvata con maggioranza 6-3. Da parte dei giudici, si è trattato indubbiamente di una delle decisioni più dirompenti della storia americana dove, come scrive Marco Bardazzi in un coraggioso articolo pubblicato su Il Foglio, «si praticano aborti legali protetti da un presunto diritto costituzionale basato su un’errata interpretazione di cosa significhi “libertà”.»
Si tratta di un “diritto” che ha consentito negli USA tra i 600mila e un milione di aborti ogni anno, un diritto che però secondo i giudici della Corte suprema non è tale. «Era semplicemente sbagliato, era terribilmente sbagliato. L’errore doveva essere corretto. Questo è quello che abbiamo fatto» dice al Foglio il giudice Samuel Alito, uno dei nove membri della Corte.
Era palesemente sbagliato e questo ogni americano lo sapeva. Perché frutto di un inganno, di una trappola tesa alla Corte suprema che si trovò a giudicare il famoso caso Roe vs Wade del 1973 che avrebbe indotto i giudici a riconoscere l’aborto appunto come diritto costituzionale.
Di ciò ci siamo già occupati su questo giornale, con un articolo del 7 maggio 2022 che ricordava come appunto agli inizi degli anni Settanta giunse davanti alla Corte suprema il caso della signora Norma McCorvey indicata, per ragioni di riservatezza, col nome di Jane Roe. Norma era una girovaga che lavorava nei luna park; si disse che la donna, nell’ambiente che frequentava, era stata vittima di ripetuti abusi sessuali e che, per questo, aveva espresso la volontà di abortire. Sebbene alla donna non fosse stata negata la facoltà di ricorrere all’interruzione della gravidanza prevista dalla legislazione del Texas dove viveva, il suo caso finì davanti alla Corte suprema perché la pratica dell’aborto fosse riconosciuta come un diritto costituzionalmente garantito.
Si trattava in realtà di una narrazione costruita ad arte e oltraggiosamente sottoposta ai giudici. Vittorio Zucconi, all’epoca corrispondente dagli USA per il quotidiano Repubblica, scrisse della McCorvey: «Le avvocatesse e le dirigenti del movimento per il diritto di interrompere volontariamente la gravidanza la beatificarono, pur sapendo che la persona era ben diversa dal simbolo, che “Jane Roe” era una povera ragazza texana da baraccone, un’inserviente di giostre e tirassegni che girovagava per i paesi della Prateria passando di uomo in uomo, di donna in donna, di bottiglia in bottiglia, di droga in droga, senza guardare per il sottile. Arrivata alla terza gravidanza aveva deciso di averne avuto abbastanza e si era inventata la storia della violenza carnale, come confessò più tardi».
C’è da dire che quando Norma McCorvey partorì – la sentenza non arrivò in tempo utile per poter abortire, anche in America infatti i tempi della giustizia sono quelli che sono – affermò clamorosamente che era stata molto felice di aver portato a termine la gravidanza, contrariamente a quanto si dicesse.
Era un caso quello di Roe vs Wade che presentava non pochi punti oscuri e non è da escludere che dietro la sentenza di un anno fa ci sia stata, oltre alle prevalenti ragioni di natura giuridica, anche la volontà di recuperare l’onore, l’autorevolezza e la credibilità della Corte suprema. «Roe era in rotta di collisione con la Costituzione fin dal giorno in cui è stata decisa» dichiara Samuel Alito a Marco Bardazzi. «Non c’è niente nella Costituzione che parli di un diritto all’aborto».
Non c’è alcuna volontà di criminalizzare l’aborto, ma per l’alto magistrato americano non si può affermare che l’interruzione di gravidanza sia un diritto e la sentenza che porta la sua firma lo ha messo nero su bianco.
Samuel Alito è figlio di immigrati italiani, il padre era calabrese; la mamma era di Palazzo San Gervasio – potremmo per questo considerarla in un certo senso una materana se si pensa che all’epoca Palazzo San Gervasio era nella provincia di Matera e faceva parte della diocesi di Acerenza e Matera. Un motivo in più, questo, per sentirsi vicini a questo giudice. Firmare la sentenza Dobbs v. Jackson, infatti, gli ha creato non pochi problemi.
Come a suo tempo abbiamo denunciato anche su questo giornale, la sentenza fu preceduta da una fuga di notizie dalla Corte Suprema, reato gravissimo per il codice penale americano. L’obiettivo di questa fuga di notizie apparve a un certo punto evidente e in tutta la sua gravità: istigare all’omicidio dei giudici responsabili dell’abrogazione del diritto all’aborto, cosa che avrebbe messo la Corte nell’impossibilità di emettere la sentenza. Sembra un’esagerazione, invece è la realtà e ha il suo fondamento in un preciso fatto accaduto l’8 giugno 2022, pochi giorni prima sentenza.
Scrive Bardazzi sul Foglio che un giovane, Nicholas John Roske, «era volato dalla California al Maryland per uccidere Brett Kavanaugh, uno dei tre giudici nominati alla Corte suprema da Trump. Roske è stato arrestato davanti alla casa di Kavanaugh dagli agenti federali che l’avevano appena messa sotto sorveglianza. Con sé aveva una pistola Glock-17, un coltello da combattimento, spray al pepe e fascette di plastica per immobilizzare le persone». Secondo i piani, il giovane avrebbe dovuto attentare alla vita di tre giudici della Corte suprema.
Anche Samuel Alito da allora vive sotto stretta protezione. Ma dopo cinquant’anni, negli USA, l’aborto non è più considerato un diritto. Con la speranza che ciò faccia riflettere il mondo intero.
Il testo in lingua inglese dell’intervista di Marco Bardazzi a Samuel Alito pubblicata sul Foglio
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