Solitamente si fa risalire l’origine della democrazia parlamentare al XII secolo, quando in Inghilterra con la Magna Charta si volle limitare il potere assoluto del sovrano, stabilendo le prime garanzie costituzionali. Qualcosa del genere però si può vedere già molto prima nella prassi dei monasteri benedettini.
La Regola voluta da san Benedetto era qualcosa di assolutamente rivoluzionario per l’epoca. Sebbene il monastero fosse governato da un abate, tra il monaco e l’abate, per quanto grande fosse l’autorità di quest’ultimo, non si stabiliva in nessun modo un rapporto di sudditanza, come avveniva in genere nella società civile di allora. Questo perché il monaco doveva obbedienza all’abate ma era tenuto nello stesso tempo all’osservanza della regola, cui lo stesso abate era sottomesso; anzi, l’abate più di tutti.
Anche nell’elezione dell’abate bisognava attenersi alle disposizioni della regola. Non avveniva la stessa cosa nel mondo, dove il potere si trasmetteva per successione dinastica e quindi per una presunta volontà divina. Si assisteva dunque al paradosso che se l’autorità del sovrano si voleva far risalire senza alcun dubbio a Dio, negli ordini religiosi invece, dove pure ogni singolo atto era subordinato alla volontà divina, per l’elezione dell’abate si ricercava più prosaicamente l’umano consenso della comunità.
Almeno fino all’età moderna, soltanto negli istituti religiosi si svolgevano libere elezioni. Léo Moulin, nel libro “La vita quotidiana secondo San Benedetto”, in uno dei paragrafi dedicati appunto alla democrazia monastica, scrive: «Nel 1115, un secolo prima della concessione della Magna Charta in Inghilterra e del suo embrionale regime parlamentare (che impiegherà sei secoli per svilupparsi), con un colpo di genio politico – bisogna notare che il promotore di questo progetto, santo Stefano Harding (1109-1133), è inglese – Citeaux fonda la prima assemblea sopranazionale europea: il capitolo generale chiamato anche Parlamentum».
Questo perché nel monastero vige uno stato di diritto. Cioè, spiega Moulin, «un sistema il cui spirito, struttura, funzionamento, meccanismi di decisione, sistema di elezione, diritti e doveri di ciascuno a cominciare da quelli dell’abate e fino ai mezzi di “revisioni costituzionali”, sono minuziosamente previsti e definiti dalla regola».
Il capitolo 64 della regola benedettina è dedicato all’elezione con suffragio universale, capitolo dove tra l’altro si richiede un requisito di merito nella nomina dell’abate. Come ogni testo legislativo, la regola di san Benedetto non scende nei dettagli delle procedure di voto ma le disposizioni che vi conteneva indussero ben presto i monaci a mettere a punto un vero regolamento elettorale.
In questi regolamenti, o “consuetudinari” – come venivano chiamati – si ritrovano tecniche elettorali e deliberative che si sono tramandate fino ai giorni nostri, ovviamente con modalità diverse. «Il modo di contare i voti» scrive Léo Moulin, «è cambiato molto. Si contavano sia le voci se lo scrutinio era fatto “da bocca a orecchio”, nel qual caso gli “scrutatores” dovevano ponderare, scrutare (da cui la parola scrutinio) le intenzioni dei votanti, sia le “ballottae”, sassolini, pezzi dì moneta, medaglie, fave rosse e bianche, ecc. Si poteva anche votare restando seduti o alzandosi, alzando la mano (destra) o uscendo dalla sala capitolare da una porta o dall’altra (pedibus ire in sententiam), o anche “assentendo col capo”.»
Tutto ciò avveniva per assicurare la regolarità delle procedure e per sottrarre la vita monastica a quell’arbitro che nella Chiesa non è stato mai visto di buon occhio. Ma c’è anche un altro motivo di ordine teologico. Nel monastero benedettino a ogni monaco era riconosciuto un preciso valore che lo rendeva unico all’interno della comunità perché, come recita la regola al capitolo 40, «ciascuno riceve da Dio un dono particolare».
Da qui la necessità, nel governo dell’abbazia, di prendere decisioni dopo una consultazione più ampia possibile, fino appunto al suffragio universale. Questo avveniva a ogni livello e si possono immaginare i disagi per esempio di chi, come l’abate, veniva convocato per il Parlamentum. Alcuni abati dovevano percorrere anche mille o addirittura duemila chilometri per assicurare la propria partecipazione. In una società dove non c’erano mezzi di trasporto veloci e le vie di comunicazione erano quelle che erano, queste avventurose imprese richiedevano a dir poco un coraggio eroico. E la convocazione del Parlamentum avveniva almeno una volta l’anno. Evidentemente, per i monaci benedettini era impensabile che per decisioni di una certa importanza non si dovesse tenere presente anche il parere, per esempio, dei monaci della Scandinavia o di quelli della Siria.
È questa un’attenzione che l’uomo moderno ha purtroppo smarrito. Di questo, la democrazia non può non risentirne. Pur senza scomodare ragioni di ordine teologico, bisogna riconoscere che la vita democratica avrebbe tutto da guadagnare attingendo alla preziosa eredità lasciata da san Benedetto e da tutto il monachesimo benedettino nella sua più che millenaria storia.
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