Formatosi alla Normale di Pisa, ha insegnato a lungo all’Università Federico II di Napoli, oggi è Rettore e professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’Università per Stranieri di Siena. E’ presidente del Comitato tecnico scientifico per le Belle Arti del Ministero per i Beni Culturali (nomina spettante al Consiglio Universitario Nazionale) e membro del Comitato scientifico degli Uffizi. E’ autore di vari saggi tra cui il libro del 2021 “Chiese chiuse”, una indagine sul futuro di migliaia di chiese oggi inaccessibili, saccheggiate e pericolanti. Ha ideato e condotto due serie televisive dedicate a Bernini e a Caravaggio per Rai 5 ed è autore di una rubrica sul Venerdì di Repubblica: Ora d’arte. Autore di vari saggi sull’arte e la salvaguardia del patrimonio pubblico.
Prof. Montanari, quali riflessioni Le ha suscitato l’Omelia di Paolo VI in cui affronta il rapporto tra la Chiesa, l’arte e gli artisti?
È un testo magnifico, che amo molto. Un testo di straziante sincerità, e di grande lucidità nel cogliere gli esiti di un lungo processo (che però naturalmente il papa lì non indaga) di separazione tra estetica e funzione, e dunque anche tra arte e funzione sacra. Le radici del divorzio di cui papa Montini prende atto affondano nel Rinascimento, e poi in Caravaggio. Gli Stati hanno lo stesso problema della Chiesa.
Il dialogo avviato da Paolo VI nel 1964, in riferimento alle sue conoscenze, ha prodotto dei cambiamenti o tutto si è fermato?
Direi che non li ha prodotti. Tolte alcune eccezioni straordinarie (per esempio le opere di Matisse), la sezione di arte sacra del secondo Novecento dei Musei Vaticani è terrificante.
L’adeguamento liturgico delle antiche chiese italiane è punteggiato da ‘opere d’arte’ di oggi davvero inguardabili. La Chiesa ha continuato a rifugiarsi nell’oleografia, e la mania delle icone orientali e dei mosaici ad esse collegati è un sintomo di fuga dal nostro tempo e dall’arte di oggi. La quale, d’altra parte, richiederebbe una apertura mentale non piccola, e ha le sue grandi responsabilità. Il risultato è che il divorzio continua.
Un anno dopo l’8 dicembre 1965, furono i Padri del Concilio Vaticano II a lanciare questo messaggio agli artisti: “Il mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione”. Considerata l’attualità del messaggio cosa si può fare secondo Lei affinché ciò si realizzi?
L’arte è bellezza ma è anche verità: tenere insieme queste due cose in un tempo come il nostro non è facile. Il mondo è diseguale, ingiusto, per molti versi orribile. L’arte che lo sente e lo denuncia non riesce a essere bella, e spesso l’arte che vuole esserlo ci pare solo un articolo di lusso. Dovremmo cercare nell’architettura, nell’urbanistica, nei giardini: è lì l’arte che può fare bello il mondo. Ma è un’arte inevitabilmente legata alla politica: e la politica è capace di fare bello il mondo, oggi?
Prendendo ad esempio le tante chiese contemporanee presenti nelle nostre città, con esterni e interni molto omologati ed anonimi, perché, secondo Lei, nella storia moderna e contemporanea delle città, non si è più posta l’attenzione sulla forma architettonica e sugli interni delle chiese, per mancanza di fondi o per altre problematiche?
Le chiese hanno seguito la sorte delle città, sformate e senza progetto. Per certi versi, le chiese povere e spoglie non mi dispiacciono: sono segno di una Chiesa che vuol seguire nuda il Cristo nudo. Sono terribili quelle finto-belle, lussuose, arroganti nella loro bruttezza. Ma è il nostro tempo che è così.
L’arte cristiana ha un valore teologale e comunica a modo suo un messaggio religioso. L’arte, nelle sue varie espressioni, ha una capacità intrinseca di cogliere l’uno o l’altro aspetto del messaggio cristiano, traducendolo in colori, forme, suoni che assecondano l’intuizione di chi guarda e ascolta. L’arte e i beni culturali in genere, in base alla Sua esperienza, assumono un significato fondamentale per la crescita culturale e anche spirituale di un Paese?
È il progetto di 3 principi fondamentali della Costituzione: il pieno sviluppo della persona umana del 3° articolo, il progresso spirituale della società del 4°, e lo sviluppo della cultura e il patrimonio culturale del 9°. Ma è un progetto oggi largamente inattuato: perché oggi contano solo i valori economici, i soldi. E anche nel patrimonio siamo clienti e consumatori.
In base alla sua esperienza, i cattolici come si pongono rispetto al rapporto tra Chiesa e l’Arte, sono sensibili o disinteressati?
C’è una crescente sensibilità del clero per il patrimonio culturale ecclesiastico, ma manca in generale un senso della funzione profetica, scardinante, dell’arte. Troppo conformismo, troppo clericalismo anche qua.
Il patrimonio artistico nelle sue molteplici espressioni ha una funzione liberale e umanizzante, pertanto può giovare allo sviluppo dell’uomo e alla crescita culturale dei cattolici e per coloro che cattolici non sono?
Il patrimonio culturale serve sostanzialmente a renderci e a farci rimanere umani: tutti, cattolici e non cattolici. Come ho provato a dire nel mio ultimo libro (Se amore guarda. Un’educazione sentimentale al patrimonio culturale):« Credo che il patrimonio culturale – la forma dei luoghi che amiamo, le chiese, le piazze, le grandi opere d’arte e gli umili selciati… – abbia un senso, e non sia soltanto un cumulo di pietre o, peggio, l’ennesima occasione di dominio di alcuni su altri, solo se ci permette di liberarci dalla dittatura del presente, dall’illusione di essere i padroni della storia: se ci restituisce l’amore necessario a coltivare ciò che, in noi, è ancora umano. Quando questo succede, succede attraverso una sottrazione, e attraverso un’apertura. Tutto quello che ci impedisce in entrare in contatto con la nostra umanità, di colpo sparisce. E ogni poro della nostra pelle respira l’altro da noi. Quando davvero entriamo in comunione – in risonanza, in osmosi – con le pietre, l’aria, la storia e le storie che ci avvolgono, sentiamo che c’è qualcosa che trascende e supera l’ansia e la fatica delle nostre giornate»
I parroci sono chiamati a prestare la loro opera in chiese antiche e moderne, onde evitare interventi che potrebbero provocare danni irreparabili su opere di grande valore o realizzare opere scadenti, non sarebbe utile che i parroci seguissero un corso di preparazione sull’arte e sulle modalità di intervento?
Sì, e ormai questi corsi ci sono. Non mancano parroci sprovveduti, o ahimé anche ladri di patrimonio, ma la stragrande maggioranza sente il peso della responsabilità. D’altra parte, non ci si fa preti per fare i custodi di un museo, è un grande problema che Chiesa e Stato dovrebbero affrontare insieme.
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