Il percorso sul tema la “Chiesa, l’Arte e gli Artisti” si arricchisce del contributo dell’artista Massimiliano Ferragina.
Nel 1998 si laurea in Filosofia, nel 2001 in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e nel 2004 prende la Licenza in Teologia Pastorale alla Pontificia Università Lateranense. Consegue nel 2013 il Master di II livello in Pedagogia Religiosa presso la Pontificia Università Salesiana. Insegna presso il Liceo artistico “Via Ripetta” di Roma, è stato dal 2008 al 2019 docente tutor e formatore presso l’Ufficio Scuola Vicariato di Roma. Ha collaborato dal 2014 al 2018 con la rivista “L’Ora di Religione” ELLEDICI. Dal 2018 conduce una rubrica d’arte radiofonica APP’ARTE su radio Ciak due Mari. Scrive di arte contemporanea per il quotidiano della Santa Sede L’Osservatore Romano. Pittore contemporaneo, ha realizzato numerose mostre collettive e personali. Nella ricorrenza dei 750 anni dal completamento della Cattedrale di Matera dipinge la “Trasfigurazione di Cristo”, acrilico su tela 120×100 (anno 2020), quadro collocato nella Cappella di Costantinopoli, accanto al Museo Diocesano (MATA) della Cattedrale di Matera.
Questa è la sua interessante intervista:
- Quali riflessioni Le ha suscitato l’Omelia di Paolo VI, in cui affronta il rapporto tra la Chiesa, l’arte e gli artisti?
E’ difficile non conoscere questo testo così profetico e denso di lungimiranza. Personalmente, non solo l’ho letto più volte, ma anche studiato, parafrasato, indagato, trasmesso ai miei studenti, allievi. Paolo VI, in questa sua, per certi versi struggente ed accorata lettera, registra una realtà preoccupante. L’arte che aveva abitato per secoli la Chiesa, che ha alimentato la diffusione degli insegnamenti e del messaggio cristiano nella storia fin dai primi secoli, ora fugge al suo compito primario, rendere visibile la Verità. Paolo VI, a parer mio si accorge che l’arte, anche quella considerata sacra, stava spogliandosi della sua appartenenza ecclesiale, della sua “amicizia” con la Chiesa, l’arte rischiava e rischia di essere solo sensazionale, fenomenologica, sentimentale, anche quando si tratta di mediare contenuti di fede. Quanti artisti, ancora oggi, nonostante il monito, la mano tesa, il tentativo di ricucire la relazione artisti-arte-Chiesa dell’immenso Paolo VI producono opere che chiamano sacre o religiose e sono vuote? Veramente vuote, di contenuto, di fedeltà al Depositum Fidei, di indagine teologica, di semplice e corretto contenuto catechetico. Le riflessioni però sono tante. Si potrebbe organizzare un convegno di tre giorni e non le avremmo sviscerate tutte. Se dovessi sintetizzare il tutto credo che Paolo VI e la sua chiamata agli artisti ad essere nuovamente amici sia attualissima e spesso ignorata, anche dal committente ecclesiastico. Le dinamiche tra committenza e artista sono complesse, molte volte legate solo a personalismi o corsie preferenziali di varia natura, o banalmente cadere nella tentazione dei seguire il fenomeno del momento, e si accede a lavori artistici che una volta realizzati esprimono poco e niente, o se esprimono qualcosa a livello di approfondimento della fede, la catechesi, la divulgazione, la diffusione e conoscenza del contenuto è carente, inizia e finisce con l’inaugurazione e l’articoletto sui giornali. Paolo VI ci invita a riscoprire la vocazione sia nel commissionare sia nel realizzare. La vocazione alla Bellezza, basterebbe interrogarsi seriamente su questo: accompagnare il fedele, con l’arte, ad interrogarsi sul suo cammino spirituale, sul suo aver o meno assimilato la proposta evangelica, sul tempo dedicato a Dio ed alla preghiera, o, e sarebbe già magnifico, nel cammino sulla via della bellezza riuscire a suscitare sentimenti di fede. Per fare questo l’artista stesso deve essere credibile, impegnato, preparato, alla sequela del Maestro, con una vita spirituale viva, luminosa, coraggiosa. Credo che fare arte sacra oggi, arte sacra dichiaratamente cristiana sia difficilissimo, perché dal fenomeno, dalla provocazione, si dovrebbe passare all’ascolto, all’incontro, alla missione.
- Il dialogo avviato da Paolo VI nel 1964, in riferimento alla sua esperienza, alle sue conoscenze, ha prodotto dei cambiamenti o tutto si è fermato?
Domanda impegnativa. Vorrò essere sincero. Paolo VI è oggi, per molti, anche uomini e donne di Chiesa, una voce che grida nel deserto. Appena la lettera fu pubblicata, certamente, c’è stato fermento, c’è stato confronto, ricerca di un dialogo, come il papa auspicava, poi, nonostante altri pontefici abbiano dedicato attenzione nel loro magistero a questo tema, mi sembra che tutto abbia perso vigore, linfa, motivazione, o che comunque sia rimasto ancorato a pochi artisti, soliti noti, ormai anche avanti negli anni che ne hanno fatto il loro “dialogo” occupando ogni possibile spazio o limitato ai giovani la possibilità di essere inseriti in questo pseudo dialogo. E lo dico senza polemica o frustrazione, è una constatazione alla portata di tutti. La mia esperienza in merito è davvero ricca di riflessioni, di consapevolezze, di evidenze. Una per tutte. La sensazione più comune, più forte, più avvertita, nel mio percorso artistico è quella che nonostante il talento (su questo si apre un dibattito infinito) la preparazione di molti artisti, anche credenti ed in cammino, nonostante la loro proposta importante sia teologica che dottrinale, meditata, che nonostante la validità di un progetto nella Chiesa in uscita, ricco di significati, allineato al magistero, con rimandi biblici magari, o tutto quello che possa testimoniare, senza dubbio o ombre, un’adesione di fede vissuta e convinta, ecco, nonostante tutta questa ricchezza il dialogo ad un certo punto si interrompe. Come se mancasse sempre il coraggio di andare avanti, di supportare e accompagnare, e magari consigliare, insomma di prendersi delle responsabilità. Nel mio cammino sono stato abbastanza fortunato ad incontrare uomini e donne di Chiesa che testimoniavano quel coraggio di cui vado parlando, promuovendo nomi nuovi, e soprattutto tessendo relazioni fondate proprio su quel dialogo tanto auspicato dal Papa. Il coraggio di indicare la via della Bellezza, con linguaggi artistici nuovi, inediti, contemporanei, ma mai offensivi, sterili, incomprensibili, vuoti di contenuto catechetico, o peggio “solo per pochi addetti ai lavori” o “solo per i maestri”, perché mi piace ricordare che il sacerdote o altra figura ecclesiale, prima di essere direttore di un Museo Diocesano, Critico d’arte, Storico dell’arte, Curatore di mostre, o altre figure, diciamo così d’élite (che d’élite non dovrebbero essere) è un uomo o donna di Spirito, in ascolto dello Spirito. Non basta la catechesi (la Chiesa) o il laboratorio (l’artista), occorre essere religiosi pieni di Spirito. Non si tratta solo di promuovere arte o artisti con criteri spesso sconosciuti o autoreferenziali, si tratta di ridare Spirito alla fede. Chiese, Musei, o altri spazi, non palcoscenico per amici ma luoghi intimi di religiosità e religione veramente spirituale. Per concludere potrei dire, per avere anche una visione positiva, che il dialogo avviato da Paolo VI oggi è ancora poco avvertito e a volte ignorato, ma questo dialogo ha un luogo, anzi, dei luoghi, privilegiati, ancor prima delle chiese stesse, dove poter essere vissuto, alimentato, ripreso in mano. Questi luoghi sono i Musei Diocesani, ci credo tantissimo e mi impegno con grande dedizione e fatica ad inserirmi in essi, a farmi aprire le porte. I Musei Diocesani hanno un potenziale infinito. Hanno opere che devono essere riscoperte, rilette, mostrate e reinterpretate. Invitare gli artisti ad abitarli, a viverli, ad agire al loro interno, sarebbe un modo per dare continuità a quel dialogo Chiesa-Artisti così entusiasmante ma che rischia di spegnersi totalmente o snaturarsi.
- Un anno dopo l’8 dicembre 1965, furono i Padri del Concilio Vaticano II a lanciare questo messaggio agli artisti: “Il mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione”. Considerata l’attualità del messaggio cosa si può fare secondo Lei affinché ciò si realizzi?
Mi rendo conto ogni giorno che passa, ogni volta che leggo la cronaca, ogni volta che incontro la gente, di quanto sia drammaticamente attuale quanto i padri conciliari avevano intravisto e dichiarato anche con una certa urgenza. Parlano, nel 1965, di “bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione” commuove leggere oggi queste parole, perché le stiamo vivendo. Cosa si può fare? Cosa si può fare secondo me? Sarò concreto. L’urgenza, è quella di ripartire dall’educazione. Educare alla bellezza. Come? Formare sacerdoti attenti, sensibili, protesi al mistero. Non burocrati, impiegati di ufficio, impegnati solo a certificare i sacramenti, non animatori o peggio organizzatori di eventi, ma uomini colti, che hanno fatto esperienza della Bellezza e se ne sono innamorati, che avvertono la Bellezza come necessità ed in quanto tale si impegno a predicarla, diffonderla, realizzarla nella vita parrocchiale. Non può essere lasciato solo il sacerdote in questo servizio. Dovrebbe essere affiancato da, appunto, artisti. Gli artisti come figure para sacerdotali, l’artista accanto al sacerdote sul presbiterio. Cosa si può fare? In parte già l’ho detto. Riaprire i musei diocesani e consegnarli alla cittadinanza, renderli fruibili, ospitare artisti, noti e meno noti, del luogo possibilmente, della parrocchia, che possano azionare concretamente la leva e accendere le anime, che non hanno bisogno di solo pane ma anche di attingere alla Bellezza, che è vicina, prossima, nelle teche polverose dei musei di ogni diocesi. Promuovere bandi, concorsi, gratuiti, per i giovani talenti, catechesi che finiscono con laboratori creativi, io stesso ho ideato percorsi del genere, li chiamo workshop di pittura biblica emozionale. Investire risorse nella formazione dei religiosi, non solo teologia, ma Belle Arti, Grafica, Design, Mosaico, Fotografia. Esistono già religiosi artisti, pittori, scultori, ma vengono considerati come su due cammini, la vita religiosa e la vita d’artista. Sbagliato. La vita religiosa è la vita d’artista. Non preti frati e suore artisti da salotto televisivo, ma vocati all’educazione artistica nella loro passione. E poi dare ascolto ai laici, ai credenti, agli artisti di buona volontà, accoglierli, farli risiedere nelle parrocchie, metterli intorno all’altare, promuovere con loro iniziative, percorsi, alla scoperta della Bellezza nel proprio territorio, dando spazio ed assoluta priorità ai più svantaggiati. I primi destinatari della bellezza dovrebbero essere i poveri.
- Prendendo ad esempio le tante chiese contemporanee presenti nelle nostre città, con esterni e interni molto omologati ed anonimi, perché, secondo Lei, nella storia moderna e contemporanea delle città, in generale (salvo alcune eccezioni) non si è più posta l’attenzione sulla forma architettonica e sugli interni delle chiese, per mancanza di fondi o per altre problematicità?
Personalmente escludo il problema dei fondi. Ho partecipato a diversi bandi, concorsi, le risorse non sono mai mancate. Viviamo nel tempo dello svuotamento di significati, del “nonsense” su diversi e diffusi ambiti. Purtroppo anche il sacro sta vivendo questo tempo relativista, senza connotazione, senza riferimenti espliciti e chiari, quasi una forma di disorientamento generale. L’arte contemporanea, così come l’architettura contemporanea, anche sacra, ne risente, anzi ne fa oggetto della sua proposta. Come se, ridurre i significati, sintetizzare al massimo i simboli, pulire gli spazi da elementi identitari, smarrire l’osservatore, siano sinonimo di contemporaneità. Le nuove costruzioni sacre, in particolare le Chiese cristiane, sono diventate spazi contenitori, funzionali all’uomo e non alla liturgia, anche se i progetti prevedono ovviamente di rispettare i requisiti minimi per gli arredi, per gli spazi, come detta e insegna la Chiesa, poi nella realizzazione qualcosa viene sacrificata in nome del minimalismo, della sintesi. In nome di una provocazione e di una modernità che comprendono ed apprezzano solo in pochi. Il fedele col suo punto di vista è totalmente escluso da questo dialogo quando, secondo le norme ecclesiastiche, dovrebbe essere interpellato. Vengono fuori poi quelle brutture di cemento o scatole bianche stuccate, che nel tentativo di simbolizzarle successivamente alla consegna dell’edificio, perché ci si accorge che non hanno nessuna possibilità di suscitare la fede o valorizzare la preghiera, o perché ferocemente criticate, o rifiutate dai fedeli, diventano più brutte ancora. Il problema vero secondo me è che le commissioni ecclesiastiche che affidano i lavori di adeguamento o costruzione di luoghi sacri vivono un senso di inferiorità rispetto ad architetti, designer, artisti, ed in nome di una falsa idea di contemporaneità approvano brutture di ogni tipo e affidano ad artisti in virtù del “nome” la qualsiasi. Ci vorrebbe coraggio, più coraggio, indicare con severità ed autorevolezza la via pulchritudinis. E’ anche vero, per la mia esperienza, che se invece si realizza qualcosa di bello, di autenticamente fedele al messaggio cristiano, magari non didascalico e quindi anche usando linguaggi contemporanei, ma sempre pregni di Scrittura, di fede, di senso del mistero, è vero che questo necessita poi di catechesi, di formazione, perché in ogni caso c’è sempre il problema forte di un alto tasso di analfabetismo religioso. Ma questo è un capitolo a parte.
- Uno dei temi su cui riflettere è quello della preparazione dei parroci quando sono chiamati a prestare la loro opera in chiese antiche e moderne. Onde evitare interventi che potrebbero provocare danni irreparabili su opere di grande valore o realizzare opere architettoniche e artistiche scadenti, non sarebbe utile che i parroci seguissero un corso di preparazione sull’arte, la progettazione partecipata, le modalità di intervento e gli aspetti teologici?
Questa domanda riprende la mia risposta di prima. Urge formazione del clero su questi temi, formazione non solo accademica, ma pratica, laboratoriale. La formazione dei parroci è completamente assente, molti si formano privatamente, anzi si in-formano, questo non significa che possono affrontare il restauro o la realizzazione di opere architettoniche sacre con competenza e gusto. I parroci sono ridotti ad essere amministratori, bisognerebbe formarli alla scuola vissuta della bellezza, mandarli in giro per musei, fiere, biennali, quadriennali, festival, metterli in contatto con le residenze degli artisti, con gli studi di architettura e creare percorsi di catechesi, di studio, di discussione, in comune. Purtroppo la “progettazione partecipata” ancora è una chimera, si traduce in una o due giornate in diocesi di incontro e confronto, ma non è questo quello che serve. Serve parlare tutte le parti la stessa lingua, serve aver maturato esperienza con i Maestri, serve aver viaggiato, conosciuto, serve aver frequentato non solo corsi di teologia ma gli studi di architettura, i laboratori degli artisti. Serve sensibilità, individuare sacerdoti sensibili alla bellezza, capaci di comunicare la fede in immagini, educati alla contemplazione, forti dal punto di vista evocativo, capaci di evocare sensazioni, riflessioni, da tradurre in immagini.
- L’arte cristiana ha un valore teologale, e comunica un messaggio religioso. L’arte, nelle sue varie espressioni, ha una capacità intrinseca di cogliere l’uno o l’altro aspetto del messaggio cristiano e non solo, traducendolo in colori, forme, suoni che assecondano l’intuizione di chi guarda e ascolta. L’arte e i beni culturali in genere, in base alla sua esperienza, assumono un significato fondamentale per la crescita culturale di un Paese?
L’arte sacra custodita nelle chiese o nei musei di ogni tipo, i beni culturali disseminati ovunque nel nostro Paese (anche nel più sparuto paesino trovi una tela del 600, o un ostensorio prezioso, o altro) sono la spina dorsale che sorregge tutta la nostra identità e ricchezza culturale. L’arte sacra prodotta dalla Chiesa nei secoli è ciò che ci rende italiani nel mondo, maestri di arte. Questo non significa che sono esclusi altri beni, quelli non sacri, anzi, sono quasi sempre in simbiosi, legati dalla storia, perché un tempo patrimonio culturale sacro e religioso, e patrimonio diciamo così, non sacro e non religioso, non erano distanti, erano sempre dialoganti. L’arte della Chiesa, e l’arte in generale, in Italia è ciò che rende la penisola unica e appetibile agli occhi di tutti. Senza saremmo solo il paese del sole e del mare. Ignorare il patrimonio artistico, non valorizzarlo, non fruirlo, non nutrirlo, non portarlo in mezzo alla gente, e soprattutto non investendo in esso, ci impoverisce tutti, ci involve, ci priva di una storia che ci chiarisce chi eravamo e indica chi saremo. Ogni museo chiuso, ogni crepa in una chiesa, ogni affresco ammuffito, ogni vetrinetta espositiva piena di polvere, ci offende in quanto italiani e ci snatura. Abbiamo ereditato un patrimonio unico al mondo, infinito, in continua crescita (vedi le recenti scoperte dei bronzi di san Casciano), un patrimonio però che rischia di essere solo finalizzato al turismo o a propagande di varia natura. Dovremmo intanto conoscere tutti, ma proprio tutti, il patrimonio del nostro territorio, del luogo dove viviamo. Desiderare di promuoverlo, di rispettarlo, di studiarlo e soprattutto di amarlo. In seguito a questo, rafforzare il nostro rapporto con la bellezza che ci circonda e quindi attivare tutti i percorsi di crescita e umanizzazione che ci permetteranno di avere un futuro.
- In base alla sua esperienza, i cattolici come si pongono rispetto al rapporto tra Chiesa, l’Arte e gli Artisti, sono sensibili, disinteressati o non conoscono il problema?
Ho incontrato tantissime persone nel mio cammino fino a qui. Frequentando parrocchie, chiese, comunità mi sono reso conto che tanti cristiani cattolici, anzi, la maggior parte, ci chiede di essere guidati. Posso affermare che i cattolici sono interessati e sensibili riconoscono di avere bisogno di guide, di punti di riferimento, di occasioni per sperimentare e vivere un serio dialogo con artisti e le loro opere. Questa considerazione, già da tempo, mi ha motivato ad usare le chiese come spazio espositivo, con adeguata preparazione, con serate di incontro tra fedeli e artista, con i parroci e le figure che ruotano nello staff parrocchiale, anche con vescovi. Beh! Sono state esperienze meravigliose di ecclesialità, di comunione, tanto frequentate. I cattolici italiani, le persone che frequentano le nostre parrocchie, rispondono ampliamente se sollecitati alla bellezza. Ho avuto mostre con trecento partecipanti in ascolto attratti dalla narrazione dell’artista, dalla sua proposta artistica, come una preghiera comune ma attraverso l’arte in chiesa. Portare nelle chiese la mia arte mi ha permesso di cogliere il bisogno, la necessità, dei fedeli di sapere, di conoscere, di avvicinarsi a Dio, a Gesù, al Suo messaggio con occhi e sguardi e immagini nuove. C’è tanta sensibilità, partecipazione, richiesta di esperienze contemplative e contempla-attive.
- Come giudicherebbe oggi, il rapporto tra la Chiesa, l’Arte e gli Artisti e quali suggerimenti ritiene utili e fondamentali per riprendere e accrescere un rinnovato rapporto?
Il rapporto Chiesa, Arte e Artisti è un rapporto oggi, ovviamente secondo me, statico. Sembra quasi che tutto sia frenato. Mi sono fatto l’idea che la Chiesa ha come abbassato la guardia su questa relazione. Una luce di speranza è venuta da Papa Francesco in occasione di una udienza con le UCAI, alla presenza di circa 200 artisti dove si esprimeva con queste parole «fate bene a essere anche sentinelle del vero senso religioso, a volte banalizzato o commercializzato. In questo essere veggenti, sentinelle, coscienze critiche, vi sento alleati per tante cose che mi stanno a cuore, come la difesa della vita umana, la giustizia sociale, gli ultimi, la cura della casa comune, il sentirci tutti fratelli. Mi sta a cuore l’umanità dell’umanità. Perché è anche la grande passione di Dio. Una delle cose che avvicinano l’arte alla fede è il fatto di disturbare un po’. L’arte e la fede non possono lasciare le cose così come stanno: le cambiano, le trasformano, le convertono. L’arte non può mai essere un anestetico; dà pace, ma non addormenta le coscienze, le tiene sveglie. Spesso voi artisti provate a sondare anche gli inferi della condizione umana, gli abissi, le parti oscure. Non siamo solo luce, e voi ce lo ricordate; ma c’è bisogno di gettare la luce della speranza nelle tenebre dell’umano, dell’individualismo e dell’indifferenza. Aiutateci a intravedere la luce, la bellezza che salva». Ecco, queste parole rivelano a che punto siamo, una Chiesa che ha bisogno degli artisti, sentinelle della bellezza, una bellezza che dovrebbe trasfigurare le cose, cambiarle, convertirle. Ma siamo sempre al livello dell’analisi del bisogno. Si! La Chiesa ha bisogno dell’Arte, e degli Artisti. E viceversa. Paolo VI lo aveva già prefigurato. Papa Francesco aggiunge il valore sociale, umano, la cura degli ultimi, infatti parla nella stessa udienza di una bellezza che sia destinata principalmente a poveri. La prassi, le iniziative in questa direzione, la formazione in merito, è ferma, o comunque lentissima. Gli strumenti utili sono tanti, ma ciò che serve veramente è il coraggio di far entrare gli artisti in chiesa. Allevarli quasi. Il coraggio di incaricarli e farsi affiancare. Allontanarsi da logiche fenomeniche, da presenzialismi, da personalismi, dall’autoreferenzialità, e tornare ad associarsi, ad allearsi, con sguardi multipli, con voce a chi è dentro la Chiesa e la ama, non la sfrutta per provocare, per sterile visibilità. Per poi uscire e realizzare meraviglie, alleati, come dice papa Francesco.
“Trasfigurazione di Cristo”, acrilico su tela 120×100 (anno 2020), quadro collocato nella Cappella di Costantinopoli, accanto al Museo Diocesano (MATA) della Cattedrale di Matera.
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