La Chiesa e l’Arte – Gabriele Scarcia

Il tema la Chiesa e l’arte si fa sempre più interessante e coinvolgente. Proseguiamo le interviste con lo storico dell’arte prof. Gabriele Scarcia a cui rivolgo la prima domanda:

Si faccia conoscere dai lettori della rivista

Sono Storico dell’arte, giornalista con decine di articoli e interviste apparse su quotidiani e riviste nazionali e regionali, esperto in valorizzazione territoriale dei beni culturali, ambientali e paesaggistici. Già portavoce del sindaco di Matera Capitale Europea della Cultura; per due volte “Premio Letterario Basilicata”, “Premio Lucani Insigni”, “Premio Heraclea”, “Premio Letterario Nazionale Carlo Levi”. Pubblicazioni di libri d’arte e di storia con le maggiori case editrici italiane come Electa Mondadori, Laterza, Rubbettino, La nave di Teseo; Segretario Regionale del Movimento culturale “Rinascimento Vittorio Sgarbi”; responsabile e referente regionale per le opere d’arte lucane in mostra all’Expo 2015; consulente per Regione Basilicata, Gal e PIT Bradanica, Formez PA, APT Basilicata; già amministratore comunale di Miglionico con “delega alla cultura”; Cavaliere dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme.

Quali riflessioni le ha suscitato l’Omelia di Paolo VI, in cui affronta il rapporto tra la Chiesa, l’arte e gli artisti?

Non ho potuto evitare di pensare a un precedente “illustre” o meglio all’azione dell’indimenticabile predecessore di Montini, Giovanni XXIII, che tanto tiepido verso arte e artisti non dev’essere stato se ha intessuto, durante il suo pontificato, un rapporto diretto con lo scultore Giacomo Manzù. Accomunati dalla provenienza bergamasca, si ritrovarono, in anticipo rispetto all’Omelia citata, protagonisti di una novella anche se vacillante fase di rinascita del rapporto fra Chiesa e Arte. Manzù infatti, fu chiamato a realizzare il ritratto in bronzo del Pontefice. Da questa opera alla “Porta della Morte” per la Basilica Vaticana, si sviluppò una profonda ammirazione reciproca alimentata da conversazioni e da scambi vicendevoli di dottrina e arte. Un Papa che rinsalda un rapporto atavico con l’Artista così come la Chiesa universale lo fa nei confronti dell’Arte, è cosa di non poco conto e antecedente all’Omelia. E in parte, tutto ciò, è abilmente quasi “orchestrato” da un comune amico. Un lucano del quale sentii pronunciare la prima volta il nome da Emilio Colombo: Don Giuseppe De Luca, nativo di Sasso di Castalda, un paesino del potentino. Un sacerdote mirabilmente colto che viveva a Roma. Un dotto amico del Pontefice e un esperto consigliere dell’artista per il programma iconografico che sarà indirizzato alla realizzazione di una “porta” per il più grande tempio della cristianità. Un apporto decisivo se il colto ecclesiastico ne restò effigiato e contemporaneamente ascese al ruolo di dedicatario dell’opera: – A DON GIUSEPPE / DE LUCA QUESTA / PORTA DELLA MORTE / DEDICA GIACOMO / MANZU’ 1963 — recita il “cartiglio bronzeo”. (Per uno strano caso del destino, personalmente ho avuto il piacere di conoscere Marco Roncalli, il saggista pronipote del Papa Buono. Sono stato persino a cena con lui e con Emilio Colombo, una sera di tanti anni fa!). Sull’Omelia di Papa Montini ho trovato invece singolare leggere in un passaggio una ammissione di colpa della Chiesa, una colpa naturalmente molto meno grave di tante altre, quando è detto che la millenaria Istituzione ha incentivato lo scollamento perseguendo, ricorrendo “ai surrogati…all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa”.

Nel passato papi, re e principi si rivolgevano ad artisti famosi affinché mettessero a disposizione la loro arte, per la realizzazione di opere sacre, a tale proposito le chiedo, perché, in riferimento alle chiese della società contemporanea, questo non è più accaduto?

In un suo recente volume, Roberto Calasso, narratore, saggista, scrittore contemporaneo, fa una osservazione netta, veritiera, assoluta e cioè che nell’architettura religiosa, dall’Ottocento a oggi, non si erigono più cupole né tanto meno si decorano. Una battuta d’arresto, dopo una ricognizione doverosa, avviene con la morte di Tiepolo. Era sparita di colpo la propensione verso l’alto che si completava con lo “sfondamento” pittorico della cupola e che metteva l’osservatore in un certo qual modo in relazione con il cielo. Nel Novecento si continuò ad assistere, quasi supinamente, allo sfumarsi del tema dell’arte sacra che tenne banco, temporalmente, da Costantino fino all’Ottocento risorgimentale appunto, quando si orientò massimamente in una produzione vicina ad ideali patriottici venati di romanticismo. Quei pochi artisti che si rimisero in discussione affrontando la tematica religiosa e seguendo spesso i canoni dell’astrattismo, furono destinati a fallire o a rimanere misconosciuti. L’architettura, come osservatori, è fra le prime a cimentarsi con nefasti fallimenti sul piano dello stile, del significato e del significante. Con il fascismo o meglio, con la sua architettura, si recuperano elementi classici anche se le cubature restarono geometricamente vincolanti. La chiesa di San Rocco a Pisticci fu rifatta da Ernesto Lapadula con sobrietà e sguardo rivolto al passato. Tutto qui! Resta dunque chiaro che al presente nessun artista e nessun committente sono stati in grado di gettare le basi di una nuova, rinnovata architettura religiosa o di connotare gli interni delle aule chiesastiche antiche, in concomitanza con i restauri, con apparati di gusto e non stridenti con la vetustà dell’edificazione. Ciò con le dovute eccezioni, naturalmente, come per la cattedra, l’altare, l’ambone della cattedrale di Matera, per non andare troppo lontani, opere dell’autoctono cartapestaio Andrea Sansone. Ci sono esempi animati da una sensibilità creativa che corrispondono alle ideazioni di Mario Botta piuttosto che di Santiago Calatrava, esempi che meritano un plauso poiché hanno insistito sulla progettazione di edifici religiosi, ma che restano pur sempre esempi sporadici che seguono rotte dissimili. Stesso dicasi per le altre espressioni dell’arte che con difficoltà si declinano nei contesti.

Prendiamo ad esempio le tante chiese contemporanee presenti nelle nostre città con interni molto omologati ed anonimi, secondo lei, perché nessuno ha mai pensato di coinvolgere degli artisti per realizzare opere d’arte? Per una questione di mancanza di mezzi o per qualche altro motivo?

Prudenza, visto che la “mancanza di mezzi” va a braccetto, stridendo, con il “di poca spesa” montiniano. Io cercherei piuttosto di far pendere le ragioni fra i motivi più carichi di misticismo. Il Concilio Vaticano II, per fare l’esempio più emblematico, ha aperto un dialogo universale e un’umanizzazione che non si conoscevano. Ha abolito il latino dalla liturgia, lingua rigorosa che inquadrava e prospettava regole, forniva una direzione sulla quale potevano “contare” oltre all’architettura, la pittura e la scultura. Il “mistero della Parola” ne uscì compromesso anche se s’instaurava vieppiù un nuovo rapporto con le masse. Il “latinorum” di Don Abbondio smise di avere la sua sacralità che si reggeva proprio sull’incomprensibilità che connotava il limitato orizzonte del popolino. Un ulteriore esempio più immediato è quello fornito dalla musica. Un tempo si suonavano gli organi a canne e gli autori erano classici. Oggi, s’imbraccia una chitarra e la musica è servita! E la messa? Il celebrante era di spalle, su gradini che lo elevavano, con i suoi paramenti riccamente ornati. Il rapporto del sacerdote con Dio non aveva bisogno di intermediari, di partecipanti. Cambiando la liturgia, tutto divenne comprensibile. Persino spiegabile. L’aura di sacralità venne meno e il prete che era una sorta di direttore d’orchestra, perse la sua centralità. Persino i paramenti in stoffe preziose e ornamenti odiernamente sono messi da parte, soventemente in cattive condizioni, in favore di riti più spartani. Il Papa è “avvicinabile”, ma un tempo, i più fortunati potevano solo osservarlo da lontano, molto lontano. L’architettura dunque e la decorazione pittorica, così come la statuaria, la paramenteria, l’argenteria oltre al resto dell’arredo delle chiese, si sono affrancate da quel ruolo di arricchimento, di messaggio dorato, celeste e così tutto diviene spoglio, spartano sia il contenitore e sia il contenuto. Vi è, dunque, una mancanza di convinzione di fondo. Anche di fede, in taluni risvolti. Uno scollamento dai precetti. Ma quello che è più raccapricciante e che anche organi religiosi di alto rango finiscono per alimentare questo decadimento, decidendo di spostamenti di altari, rimozioni di statue antiche, aggiornamenti, modernizzazioni, adeguamenti e quant’altro. E a patirne sono le strutture storiche con innesti ultramoderni in contesti che dovrebbero vivere di atmosfere, dove tutto era progettato non a caso, dalla luce ai decori, dalle proporzioni alle cromie. 

Non crede che, se nelle nostre chiese contemporanee, ci fossero dipinti, sculture, suoni, di natura religiosa, lasciati alla libera interpretazione degli artisti, sempre nel rispetto teologico e liturgico, i fedeli e non solo, sarebbero più coinvolti perché visivamente interessati al messaggio che l’opera esprime, per la bellezza e la profondità che è in grado di trasmettere?

Il concetto di “libera interpretazione” spesso, odiernamente, stride con il “rispetto teologico e liturgico”. Rivolgiamo lo sguardo alla “interpretazione” architettonica della chiesa di San Paolo Apostolo a Foligno realizzata da Massimiliano Fuksas e consacrata nel 2009. Un indecoroso magazzino di cemento, senza volta e senza cupola! Il concetto viene ben rimarcato da Benedetto XVI. Nella sua Teologia della liturgia egli espone eloquentemente la materia, come scrivesse accoratamente all‘archistar: “…il vano dell’edificio sacro non dovrebbe avere niente in comune con quei blocchi di cemento che si chiudono alla creazione…”. Qui ci troviamo di fronte al caso emblematico….

L’arte cristiana ha un valore teologale, e a suo modo, comunica un messaggio religioso. Nella nostra analisi l’arte ha una capacità intrinseca di cogliere l’uno o l’altro aspetto del messaggio cristiano, traducendolo in colori, forme, suoni che assecondano l’intuizione di chi guarda e ascolta. L’arte e i beni culturali in genere assumono un significato specifico in quanto sono ordinati all’evangelizzazione, al culto e alla carità. Ritiene che il patrimonio artistico nelle sue molteplici espressioni ha una funzione liberale e pertanto umanizzante, che giova cioè allo sviluppo dell’uomo e quindi è preambolo all’evangelizzazione per la ricchezza del messaggio rivelato?

Su una risposta positiva alla domanda, non vi è dubbio alcuno. La Chiesa cristiana, più di qualsiasi altra istituzione, è stata capace di stimolare, produrre, valorizzare e conservare nei secoli, una quantità sterminata di arte, in senso onnicomprensivo e l’evangelizzazione ha fatto propria e ha attinto da questa linfa vitale. Ma prima o poi, come dettosi, dopo una tradizione secolare e un continuo aggiornamento, la millenaria “organizzazione” doveva scontrarsi con una realtà di decadimento. Di svilimento. Di mancato orientamento. Non che nel tempo non ci fossero stati momenti di modesta produzione e mancato aggiornamento dei linguaggi. Il “Rinascimento”, nel termine, porta di fatti in sé i germi di una rinascita, ma l’Ottocento, ad esempio per le province meridionali, fu marcato da una grave arretratezza che si riflesse in tutti i campi delle arti figurative. L’emigrazione dei migliori talenti, un modestissimo mecenatismo, un mercato artistico ridotto all’osso. Rare eccezioni? Prendiamo due esempi del sud Italia: la costruzione del Santuario di Pompei con il gran flusso di denaro proveniente dalle tasche di migliaia di fedeli o il Santuario della Madonna del Pozzo a Capurso, rappresentano, nelle architetture e negli apparati decorativi (compresi quelli non più visibili ma testimoniati da quadri a tema), tentativi di ripresa di antichi canoni e riadattamenti decorativi a volte discutibili, poiché eccessivamente fastosi o stridenti. Non uno stile univoco, aggiornato quanto piuttosto, quello che si è già visto e riprodotto. Il tema, a questo punto, è quello di capire se andiamo o andremo incontro ad un altro rinascimento visto che al presente, pochi ma buoni nomi possono degnamente rappresentarlo. E in tema di “rinascita” abbastanza attuale, come sottacere la ricostruzione della cattedrale di Noto che nelle decorazioni ha seguito le indicazioni di un programma iconografico articolato da monsignor Chenis e si è rivista una cupola affrescata, la vetrata, l’altare con i putti argentei e paffuti, tanto da poter far dire a Benedetto XVI, nell’Udienza Generale datata 31 agosto 2011: “Un’opera d’arte è frutto della capacità creativa dell’essere umano…L’arte è capace di esprimere e rendere visibile il bisogno dell’uomo di andare oltre ciò che si vede…è come una porta aperta verso l’infinito…E un’opera d’arte può aprire gli occhi della mente e del cuore, sospingendoci verso l’alto”.

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Domenico Infante

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