Il Prof. Andrea Dall’Asta, dopo avere terminato gli studi di Architettura a Firenze nel 1984, entra nella Compagnia di Gesù nel 1988. Termina gli studi di filosofia a Padova, quelli di teologia a Parigi e sempre a Parigi consegue il dottorato in filosofia estetica, dopo un anno di preparazione al Dottorato (DEA) a New York presso la Columbia University. Lavora attualmente a Milano presso la Galleria San Fedele di cui è direttore dal 2002. Nel 2004 ha ripristinato il celebre Premio San Fedele per giovani artisti, fondato nel 1951. Al Centro Culturale San Fedele di Milano, è responsabile del settore cinema dal 2012. Da settembre 2008 al 2019 è stato Direttore della Raccolta Lercaro di Bologna. La sua attenzione è rivolta al rapporto arte, liturgia e architettura. Ha fatto parte del comitato scientifico del Padiglione del Vaticano per la Biennale di Venezia (2013) ed è stato co-curatore della sezione Disegnare il sacro, alla Biennale di Architettura di Venezia (2014). Scrive sul quotidiano Avvenire e su Civiltà Cattolica. È stato professore invitato alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, insegna alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale sez. San Luigi di Napoli.
Porgiamo al Prof. A. Dall’Asta la prima domanda:
- Quali riflessioni Le ha suscitato l’Omelia di Paolo VI, in cui affronta il rapporto tra la Chiesa, l’arte e gli artisti?
L’omelia di Paolo VI ha fatto emergere la consapevolezza che occorre cambiare il modo con cui la Chiesa pensa il proprio essere nel mondo. Non ci può essere una cultura cattolica accanto a una cultura “laica”. Il vangelo è chiamato infatti a incarnarsi nelle culture del proprio tempo, a vivificarle, a fecondarle e a purificarle, trasformandole dall’interno. In relazione al tema dell’immagine, una “scuola d’arte” cristiana non è sufficiente, ma occorre rivolgersi agli artisti del proprio tempo con fiducia, per accompagnarli nella riflessione dei temi che sono stati al centro dell’immaginario cristiano. In questo senso, l’omelia di Paolo VI resta ancora attuale.
- Il dialogo avviato da Paolo VI nel 1964, in riferimento alle sue conoscenze, ha prodotto dei cambiamenti o tutto si è fermato?
Il dialogo avviato da Paolo VI non ha di fatto generato una seria riflessione sulla relazione tra immagine e Chiesa. Tranne pochi casi isolati, da allora la situazione non sembra molto mutata. Il dialogo tra arte e fede è diventato una sorta di manifesto portato avanti da molti, ma non ha prodotto esiti significativi. Concretamente, anche negli spazi più importanti dal punto di vista storico religioso, gli interventi, spesso annunciati da grandi concorsi, sembrano avere avuto esiti tanto incerti quanto mediocri e… prevedibili.
Soprattutto, non c’è nessun tipo di analisi critica sull’infinita quantità di immagini che vengono prodotte, per cui nessun serio dibattito può essere previsto. Tutto appare posto sullo stesso livello, senza alcuna riflessione estetica, teologica, antropologica… Se guardiamo le realizzazioni prodotte, viviamo in una sorta di impasse «creativa», per cui il gesto invocato a creare immagini cultuali appare impacciato, disorientato. Allo stesso modo, un forte disagio da parte di chi dovrebbe dare indicazioni sulle strade da intraprendere crea smarrimento e confusione.
Non è un caso che le immagini liturgiche prediligano oggi forme banali e semplificate, fumettistiche, spesso derivate da manga giapponesi, dai contenuti immediatamente decifrabili, dalla facile e superficiale emotività. Troppo spesso, le scene sacre sono popolate da personaggi dai volti sdolcinati ed estenuati, teologicamente inattuali e spiritualmente innocui, se non drammaticamente malati… Maria, Gesù, i santi… si presentano con volti di adolescenti trasognati e catatonici, artificiosamente umili e sottomessi, come se la fede non interrogasse la maturità intellettuale e affettiva del credente. Tutto appare idealizzato e svuotato di ogni preoccupazione per la realtà attuale, oniricamente catapultato in una dimensione senza tempo. Insomma, l’immagine sembra appartenere a un mondo che non ha niente a che vedere con la vita reale.
- Un anno dopo l’8 dicembre 1965, furono i Padri del Concilio Vaticano II a lanciare questo messaggio agli artisti: “Il mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione”. Considerata l’attualità del messaggio cosa si può fare secondo Lei affinché ciò si realizzi?
Nella cultura dell’Occidente, sin dall’epoca greca,la bellezza è sempre relativa alla trascendenza. Che si tratti di un ordine cosmologico o teologico, il bello rinvia infatti a un assoluto originario, a un mondo trascendente, interpretato nei primi secoli dell’era cristiana da Plotino come casa del Padre o da Agostino come patria celeste, ultima destinazione, meta finale dell’uomo.
Di fatto, a partire dalla teologia agostiniana, il cristianesimo porrà come sorgente di questa armonia Dio stesso, fonte da cui scaturisce ogni bellezza. Nella riflessione cristiana, il dibattito sulla bellezza s’incentra sin dai primi secoli sulla figura di Cristo, rivelazione del Dio invisibile, quindi su di un corpo. Il Figlio, «irradiazione della sua gloria» (cf Eb 1,3), rivela la bellezza in Dio. Oggi, siamo chiamati a interpretare questa bellezza con i linguaggi del nostro tempo, con la sensibilità della cultura contemporanea. Questa bellezza deve essere per noi un appello, deve fare emergere la verità di un incontro dell’uomo col mondo, che si trasforma in interrogazione sulle dimensioni più profonde del mistero della vita, del nascere, del morire, del soffrire… In questo senso, la figura di Cristo sulla Croce può essere punto di riferimento, per discernere il bello dal brutto, senza fermarsi alla superficie delle cose o a categorie estetiche effimere che possono variare nel corso del tempo.
Dal punto di vista concreto, penso che occorra accompagnare “veri” artisti nel processo creativo perché possano rivelare la trascendenza di questa “bellezza”.
- Prendendo ad esempio le tante chiese contemporanee presenti nelle nostre città, con esterni e interni molto omologati ed anonimi, perché, secondo Lei, nella storia moderna e contemporanea delle città, in generale, non si è più posta l’attenzione sulla forma architettonica e sugli interni delle chiese, per mancanza di fondi o per altre problematicità?
Il problema fondamentale sta nel fatto che gli architetti, come gli artisti, sono molto più difficilmente consapevoli – rispetto al passato – dell’“esperienza” di fede che la loro architettura o la loro arte dovrebbe suscitare nel fedele. Pensiamo all’arte, ma la stessa cosa potrebbe essere valida dal punto di vista architettonico.
Recentemente, si è ritornato a interrogarsi – soprattutto in relazione agli ultimi scandali relativi agli abusi –, se conservare o meno le opere di autori “problematici”, come per esempio quelle di padre Louis Ribes. È qui in gioco la relazione arte e vita. L’arte è testimonianza di un vissuto e nasce dalla fiducia che il Vangelo possa farsi sempre «cosa nuova», prima di tutto… per noi. Di fatto, l’autonomia dell’arte è un mito, non esiste. Oltretutto questa riflessione è molto recente, nasce infatti con la filosofia kantiana. L’arte scaturisce sempre dalla vita. L’arte è vita. L’arte non può essere separata dalla vita, ma affonda la propria esistenza nelle sue radici teologiche, antropologiche, esistenziali. Per questo motivo, è fondamentale sapere leggere l’immagine in profondità, senza limitarsi agli aspetti iconografici o a quelli cromatici. La lettura dell’immagine è estremamente complessa e va ben al di là dal risolversi in una didascalia visiva.
Dimenticare questo assunto vuole dire non comprendere il significato dell’immagine, sin dalle prime realizzazioni quando, migliaia di anni fa, l’uomo creava le straordinarie testimonianze della caverna di Lascaux. Significa inoltre dimenticare le ragioni per le quali la Chiesa ha sempre considerato l’immagine come un luogo teologico, soglia tra finito e infinito, spazio simbolico che permette al fedele di incontrare il Dio della vita.
Per quanto riguarda le architetture contemporanee, se da un lato ci sono alcune architetture religiose molto belle e significative, dall’altro lato, quando entriamo in questi spazi, avvertiamo un senso di disagio, come se queste non aiutassero alla preghiera, alla partecipazione delle celebrazioni. Anche le chiese costruite in Italia dai più grandi architetti si prestano talvolta a queste critiche, malgrado non si possa fare a meno di esaltare la qualità della loro architettura. È come se in queste chiese, malgrado le loro citazioni bibliche e teologiche, mancasse l’“esperienza” dello spazio sacro che non può essere semplicemente tracciato dalla bellezza di forme e di volumi, ma deve essere abitato da una “sapienza” che sappia esprimere il carattere rivelativo di un vissuto. Tuttavia, questo non s’improvvisa…
- Lei ha partecipato al convegno nel maggio 2022 “Quale Arte Sacra Oggi? Uno dei temi affrontati è stato quello della preparazione dei parroci quando sono chiamati a prestare la loro opera in chiese antiche e moderne. Onde evitare interventi che potrebbero provocare danni irreparabili su opere di grande valore o realizzare opere architettoniche e artistiche scadenti, non sarebbe utile che i parroci seguissero un corso di preparazione sull’arte, la progettazione partecipata, le modalità di intervento e gli aspetti teologici?
Certo, occorre puntare sulla formazione. È questo un grande problema, del tutto ignorato. Perché – per esempio – nei seminari non sono previsti corsi che diano indicazioni almeno sommarie a chi diventerà responsabile di un patrimonio culturale e spirituale immenso? Tuttavia, questo tema non sembra essere nell’agenda di nessuna diocesi. C’è sempre qualcosa di più importante da fare. L’educazione allo sguardo non s’improvvisa e tanto meno il «mi piace – non piace» o «è mio amico – non è mio amico» possono diventare i criteri assoluti (come accade per lo più oggi) delle nostre scelte, quando interveniamo in una chiesa. È solo segno della nostra povertà culturale e spirituale. L’educazione alla visione richiede anni, fatica, intelligenza, passione, e tanto coraggio. Non è poi certo sufficiente organizzare qualche convegno o partecipare a qualche conferenza per porre rimedio a quanto richiede una vera e propria esperienza nei campi dell’arte, della vita e della fede…
Occorre formare i committenti. Il loro lavoro è infatti estremamente delicato, in quanto devono tenere conto di tantissimi aspetti: architettonici, estetico/liturgici, biblici, iconografici, finanziari… Insomma, devono essere validi registi che coinvolgono artista e fedeli nella creazione di un volto che possa permettere alla comunità di riconoscersi.
- L’arte cristiana ha un valore teologale, e comunica un messaggio religioso. L’arte, nelle sue varie espressioni, ha una capacità intrinseca di cogliere l’uno o l’altro aspetto del messaggio cristiano e non solo, traducendolo in colori, forme, suoni che assecondano l’intuizione di chi guarda e ascolta. L’arte e i beni culturali in genere, in base alla Sua esperienza, assumono un significato fondamentale per la crescita culturale di un Paese?
Certo, l’arte e i beni culturali assumono un significato centrale nella crescita culturale di un Paese, ma occorre fare una precisazione. Oggi tendiamo a considerare l’arte del passato puramente dal punto di vista storico artistico. In realtà, limitarsi a questo aspetto è un grande errore, in quanto il patrimonio artistico/religioso rappresenta il vissuto di una comunità credente che ci ha preceduto. È l’espressione di come la fede cristiana ha compreso la propria relazione con Dio e con il mondo. In questo senso, va interpretata nella sua complessità e integralità. È oggi più che mai necessario – in un mondo che tende a dimenticare sempre più i fatti appena accaduti e i mass media sono dei veri maestri in questo senso – prendersi cura del nostro passato. Non ci può essere futuro senza essere accompagnati dalla nostra memoria. Il futuro ha un cuore antico, diceva Carlo Levi. Senza l’amore per le testimonianze che ci sono state consegnate, rischieremmo di camminare senza sapere chi siamo, da dove veniamo, verso dove andiamo. In questo senso, il passato deve avere un valore generativo.
Tutta la produzione religiosa che noi oggi chiamiamo «artistica» ha sempre avuto un valore «apostolico». È questo un termine particolarmente ampio che ricopre un vasto ventaglio di significati. In ogni caso, sia che si tratti di un’architettura, sia che consideriamo un’immagine, sono queste «testimonianze di fede». Quello che noi chiamiamo arte esprime quella fruizione estetica che era posta in diretta relazione alla gloria divina, alla manifestazione della bellezza dell’incontro tra Dio e uomo. L’immagine era “teofania”. Oggi, siamo chiamati a riscoprire questa bellezza. È quanto la Scuola di Alta Formazione di arte e teologia di Napoli in cui insegno cerca di fare con passione.
- In base alla sua esperienza, i cattolici come si pongono rispetto al rapporto tra la Chiesa, l’Architettura e l’Arte, sono sensibili o disinteressati?
Al di là di ogni generalizzazione, noto un certo interesse dell’arte e dell’architettura sacra, anche nel mondo laico, compreso quello giovanile. È interessante notare che se in primo momento le persone si avvicinano all’arte e all’architettura come “patrimonio culturale”, in un secondo tempo restano colpite dalle dimensioni simboliche e religiose da loro sprigionate che parlano della nostra vita. In questo senso, i cosiddetti “beni culturali” sono molto attuali, perché, pur creati secoli fa, rivelano il nostro presente.
Così, nella chiesa di San Fedele di Milano esplicitiamo questa relazione attraverso la creazione di opere d’arte contemporanea, appositamente realizzate su commissione ad artisti come Kounellis, Paladino, Nicola de Maria… Mi dispiace tuttavia quando riscontro disinteresse da parte dei presbiteri e dei seminaristi, proprio da coloro che sono o che saranno chiamati diventare i committenti dell’arte sacra.
Troppo spesso, si dimentica che la riflessione sull’arte sacra contemporanea non è semplicemente un fatto di gusto estetico o un problema stilistico, ma è rivolta a comprendere le modalità con le quali la comunità credente vive l’esperienza di Dio, celebra i propri riti. L’immagine rivela come la fede è vissuta. È luogo teologico, che promuove ed esprime un’esperienza. Non si riduce mai a una semplice catechesi, tantomeno esprime solo un contenuto narrativo da decodificare.
In breve, l’immagine (e l’architettura) rivela in quale volto di Dio noi crediamo.
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