Una delle più difficili scommesse che ha davanti il nostro territorio della Basilicata è quella della rinascita delle aree interne. Peppe Lomonaco è uno scrittore di Montescaglioso. I racconti che trattano dei temi dell’abbandono delle terre e della fuga verso la città, verso la grande industria, offrono spunti di riflessione di rara efficacia. Non è molto conosciuto al grande pubblico, sebbene abbia ricevuto importanti riconoscimenti, come il premio letterario Giacomo Matteotti conferito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
In uno dei libri di Lomonaco che si intitola È stata una lunga giornata si vede il protagonista del racconto che, lasciate le campagne della sua Lucania, arriva in una grande fabbrica torinese per essere avviato al suo nuovo lavoro di operaio. Facendo per la prima volta il suo ingresso in fabbrica, il giovane operaio viene preso da un moto di sconcertante stupore che lo induce a fare un rapido calcolo: «Un solo capannone fa vivere quattrocentocinquanta famiglie. Se fossero state nei terreni di grano o di fave o di ceci non sarebbero bastati quattromilacinquecento ettari».
È un calcolo di natura economica che ogni contadino fa per stabilire se la terra che possiede è in grado di sfamare la propria famiglia. È purtroppo una considerazione che ha spinto una moltitudine di uomini ad abbandonare, sia pure dolorosamente, la propria terra.
Quello stesso abbandono della terra che, stando ai calcoli di natura economica, appare inevitabile, è stata anche la scena che si è presentata davanti agli occhi di Gino Girolomoni, padre dell’agricoltura biologica in Italia, quando negli anni Settanta tornò nella sua terra dopo avere cercato fortuna, pure lui, lontano da casa, in Svizzera.
In un articolo, pubblicato su Avvenire anni fa, Girolomoni ricordava il ritorno nella sua regione, le Marche: «Sono figlio di contadini e nel 1970 sono diventato sindaco di Isola del Piano. Mi sono domandato perché se ne erano andati via tutti. Mi sono detto insieme ad altri amici e a mia moglie: se i nostri padri hanno vissuto in campagna senza soldi, strade, acqua e telefono, possiamo farcela noi che disponiamo di tutti i confort? È una riflessione che riguarda i due terzi del territorio italiano scartati dall’economia. […] Per me anche questa ha un senso religioso. Ho scoperto quarant’anni fa che stavamo avvelenando la creazione con concimi chimici, diserbanti, pesticidi. E il cibo con conservanti, coloranti, aromi artificiali. Stiamo distruggendo l’eden. Ho scelto il bio perché non posso avvelenare il mondo».
Forse quel senso religioso di cui parlava Girolomoni o quel cristianesimo contadino ereditato dai padri, di fronte alla scena dell’abbandono della terra, avrà fatto risuonare in lui le parole del Vangelo: «Volete andarvene anche voi?» Questa segreta domanda del Signore, così umana, ha interrogato e commosso il cuore di Girolomoni e lo ha spinto, consapevolmente o inconsapevolmente, a guardare con occhi diversi alla sua terra. A guardare cioè alla terra come a una promessa, a un concreto bene per sé e per la propria famiglia.
Non bisogna dimenticare quanto ciò sia importante per la fede cristiana. Già dal primo momento, quando Dio si rivelò ad Abramo, promise una terra: «La terra che io ti darò». E il cammino del popolo di Israele, la storia della salvezza, sarà proprio questo: un cammino verso una Terra Promessa. È un’utopia seguire un modo di coltivare la terra che sia rispettoso della volontà dal Creatore?
Disse una volta Gino Girolomoni: «Il mio vicino di azienda faceva 10 quintali di resa più di me e mi derideva perché mi ostinavo a non usare prodotti chimici. Ora i suoi terreni sono abbandonati, non danno più nulla». Girolomoni è morto nel 2012 all’età di 65 anni, ma ha lasciato in eredità ai suoi figli un’azienda che ancora oggi è un punto di riferimento nel mercato del biologico ed è conosciuta in tutto il mondo. Certo, ha dovuto affrontare difficoltà enormi, come quelle contro certe strane leggi italiane; per esempio, combattendo per 17 anni contro l’assurdo divieto di vendere in Italia la pasta integrale.
Un giornalista di Avvenire gli chiese una volta se non si sentiva un po’ fondamentalista. Anche chi crede nella Resurrezione è in fondo un fondamentalista, rispose. A questo proposito, è sempre stato vivo in Gino Girolomoni il nesso tra il suo lavoro e la fede, particolarmente tra la terra e l’eucaristia riguardo alla quale, come sappiamo, nella liturgia si ricorda che il pane consacrato è anche “frutto della terra e del lavoro dell’uomo”. E per questo, per esempio, anni fa avanzò la proposta, rivolta ai vescovi della sua regione, di far celebrare l’eucaristia con pane e vino biologici.
Sarà un caso, ma possiamo osservare che il triste fenomeno dell’abbandono delle terre è spesso accompagnato dalla minore frequenza alla liturgia eucaristica. Il Congresso eucaristico che si celebrerà a Matera nel settembre prossimo, con il suo tema “Tornare al gusto del pane”, lascerebbe pensare anche a questo. E alla necessità di tornare al pane buono, di tornare fiduciosi alla terra, di tornare alla promessa iniziale fatta ad Abramo. Sulla quale, la vicenda umana e la fede vissuta di Gino Girolomoni potranno certamente aiutare a capire qualcosa di più.
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