Della figura di Charles Péguy si è tornato a parlare in occasione della morte della scrittrice Mimmi Cassola, traduttrice in Italia delle principali opere del poeta francese, nato nel 1873 e morto all’età di 41 anni combattendo al fronte, alle prime battute della Grande Guerra.
Péguy è stato un intellettuale tanto amato ma anche tanto osteggiato. Partire da Mimmi Cassola è utile perché, storicamente, le sue traduzioni hanno contribuito non poco a rimuovere quei pregiudizi che, almeno in Italia, hanno oscurato la fama di questo importante poeta. Mimmi Cassola è stata una scrittrice, nipote del celebre Carlo Cassola, partigiano, tra i più prolifici e apprezzati scrittori italiani del dopoguerra, oltre che Premio Strega.
Negli anni dei suoi studi liceali, Mimmi Cassola incontra don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, movimento cui aveva aderito. A lei don Giussani propone di tradurre le opere di Charles Péguy. Nonostante avesse appena sedici anni, Mimmi Cassola aderisce alla proposta, tanto che qualche anno dopo si presenterà all’editore Jaca Book con l’intera trilogia dei Misteri tradotta. Così, le opere di Péguy poterono essere pubblicate e finalmente conosciute in Italia.
Come si diceva, erano tanti i pregiudizi che circolavano nel nostro paese riguardo a Péguy perché egli, oltre a essere poeta era anche un importante punto di riferimento del socialismo francese. Bisogna tener presente che negli anni che hanno preceduto le Guerre mondiali, essere socialisti significava porsi in netta contrapposizione alla Chiesa cattolica, allora molto forte sia in Francia sia in Italia; accentuato, nei socialisti, era il loro anticlericalismo. Péguy stesso non era da meno; anticlericale rimase anche dopo la sua conversione e la sua adesione alla Chiesa cattolica. Celebre è una battuta del cardinale Roger Etchegaray: «Di Péguy mi piace il suo anticlericalismo di buona lega». Questo è ciò che ha detto in epoca recente e in termini elogiativi il cardinale Etchegaray, ma ai tempi di Péguy le gerarchie ecclesiastiche erano di altro parere.
La considerazione verso il poeta non migliorò certo con la sua conversione. Tutt’altro. Perché poteva esserci il rischio che la posizione del poeta potesse minare quella che allora si chiamava l’unità politica dei cattolici, unità che si concretizzava nella compatta adesione dei cattolici al partito della Democrazia Cristiana.
Non erano, questi, timori campati in aria perché l’influenza di Péguy sulla sinistra italiana si faceva certamente sentire. Basti pensare che Antonio Gramsci ne era rimasto letteralmente folgorato; tanto che scriveva: «Noi rileggiamo un libro che tanto amiamo, Notre Jeunesse di Carlo Péguy, e ci inebriamo di quel senso mistico religioso del socialismo che tutto lo pervade […]. Nella prosa di Péguy sentiamo espressi con empito sovrumano, con tremiti di commozione indicibili, molti di quei sentimenti che ci pervadono e che poco importa ci siano riconosciuti».
A Péguy guardava una parte dei comunisti italiani che faceva riferimento soprattutto a Franco Rodano, una componente che non era affatto trascurabile considerando che nel gruppo si ritrovava anche Antonio Tatò, storico segretario di Enrico Berlinguer.
Come mai, allora, tanta simpatia da parte di un mondo legato alla Chiesa verso un poeta simbolo di una sinistra che concepiva se stessa come alternativa all’azione politica dei cattolici? Una ragione potrebbe essere che Péguy rappresentava una novità riguardo al modo di porsi dei cristiani nel mondo, una maniera originale di proporre la propria fede nella vita pubblica.
Di Cristo che si accingeva a iniziare la sua vita pubblica, Péguy scrive: «Doveva fare tre anni. Fece i suoi tre anni. Ma non perse i suoi tre anni, non li usò per piagnucolare e accusare la cattiveria dei tempi. Eppure c’era la cattiveria dei tempi, del suo tempo. Arrivava il mondo moderno, era pronto. Lui tagliò corto. Oh, in un modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. Non incriminò il mondo. Salvò il mondo. Sulla sabbia del secolo si versava inesauribile una fonte, una fonte di grazia».
Il rischio dei cristiani, nella vita pubblica, è quello di anteporre una pregiudiziale identitaria alla propria presenza. Creando una linea di demarcazione che vede da una parte chi si dice cristiano e dall’altra un mondo che rappresenta una minaccia con la sua mentalità anticristiana – la cattiveria dei tempi.
Péguy invece, come Cristo, tagliava corto per rivolgersi al grande compito: fare il cristianesimo. Pur perdurando la “cattiveria dei tempi” non bisognava attardarsi su nulla e mettere mano alla costruzione di un mondo migliore.
Come allora, questo è il tempo di anteporre la speranza cristiana di un mondo migliore a ogni altra preoccupazione politica. Perché la speranza è il grande compito, la parola che i cristiani hanno da dire al tavolo della politica. La speranza di un mondo migliore, l’umana speranza che i nostri figli abbiano un futuro migliore del nostro.
Una speranza che il mondo non può darsi da sé. Perché, dice Péguy nei suoi versi poetici, «la speranza non va da sé. La speranza non va da sola. Per sperare, bambina mia, bisogna esser molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia».
Chi dice che questo è il tempo di difendere l’identità cristiana dalla cattiveria dei tempi si fa carico di un compito che non gli è proprio, “essere contro” non appartiene alla fede cristiana, come affermò in un magistrale intervento Julian Carrón. Non è compito del mondo salvare la Chiesa. Semmai è vero il contrario: è compito della Chiesa salvare il mondo. E come? Tagliando corto e mettendo in campo quella “grande grazia” che fa guardare con fiducia al futuro delle generazioni future. Al futuro di quei bambini cui si rivolgeva Péguy e che oggi si affacciano alla vita.
Serve una politica che parta da quella “grande grazia”, da quella felicità che dispone gli uomini alla speranza. È un mistero, scriveva Péguy, «che questi poveri figli vedano come vanno le cose e credano che domani andrà meglio». Ma è un mistero che regge le sorti del mondo.
Questo presentimento religioso del bene che entusiasmava tanto Gramsci e che chiamiamo speranza è l’apporto originale che i cristiani possono dare alla politica. A un percorso politico, a un cammino, che veda i cristiani – come dice papa Francesco – “pellegrini di speranza”.
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