Omar oggi vive a Stoccolma. Viveva in Siria quando ricevette una telefonata dove una voce gli diceva: «Gli uccelli si stanno radunando, devi venire». Omar ha oggi venticinque anni ma ne aveva appena quindici quando ricevette quella telefonata di cui afferrò subito il senso. La sua storia si può leggere nella traduzione italiana fatta dalla rivista Internazionale.
«Avevo visto in tv le proteste scoppiate in Tunisia ed Egitto» dice il ragazzo, «il 6 marzo erano arrivate in Siria, dove gli abitanti di Daraa avevano protestato contro l’arresto e la tortura di quindici studenti che avevano realizzato dei graffiti contro il governo. Il 15 marzo c’erano stati altri disordini a Damasco. Avevo capito che era arrivato il turno della mia città».
Come in tante città della Siria, anche Omar, al segnale “gli uccelli si stanno radunando”, scese in piazza per manifestare e per chiedere quella libertà che agli uccelli nel cielo non è negata. La folla era imponente e questo deve avere creato qualche illusione tra i manifestanti. Perché subito dopo apparve che anche la mobilitazione dell’apparato poliziesco sarebbe stato imponente.
«Il 12 aprile la mia famiglia» racconta Omar, «non sapendo che le forze governative erano arrivate nel nostro villaggio, mi mandò a comprare il pane. I soldati mi legarono le mani dietro la schiena e fui gettato per terra insieme a più di cinquecento uomini, catturati nella stessa circostanza. Alcuni soldati mi sferravano calci sul capo e saltavano sulla mia testa e sul mio corpo, obbligandomi a gridare la mia “lealtà” al presidente: “Dio, Siria e Bashar!”».
E qui sta tutta l’aberrazione del regime siriano: equiparare il presidente Bashar al-Assad a Dio stesso. Omar e sua madre hanno trovato riparo in Svezia, suo padre invece è stato ucciso dagli uomini di Bashar, insieme a due fratelli e a due cugini. La sua casa è stata data alle fiamme, come anche la sua scuola. Hanno arrestato perfino i suoi compagni d’infanzia. La gente del suo villaggio è stata massacrata.
Sono trascorsi dieci anni da questi fatti, dieci anni in cui non è cambiato nulla della ferocia del regime, se non il suo tragico bilancio, ormai mezzo milione di morti e il novanta per cento della popolazione che vive in condizioni di estrema povertà. Dieci anni di una guerra che non è giusto definire una guerra civile, come comunemente si intende. È piuttosto la guerra di un uomo al potere contro il suo stesso popolo. Non ci sono parole che possano dire le ragioni di questa inspiegabile ferocia.
Michel Kilo, un siriano dissidente, intellettuale cristiano, ha trovato invece riparo a Parigi. Ha rilasciato un’intervista a Oasis, rivista dell’omonimo centro internazionale presieduto dal cardinale Scola che promuove la conoscenza del mondo islamico e l’incontro tra cristiani e musulmani. Quello siriano, dice Kilo, «è un regime che ha annullato la società per rafforzare il proprio potere, che ci ha obbligati a vivere a ogni livello in condizioni disumane. Ha sottratto agli esseri umani tutto ciò che avevano. Siamo schiavi di un uomo che si crede Dio».
Ricorda ancora Kilo: «Quando mi hanno liberato mi hanno detto: “Fa’ attenzione, la tua vita vale 3 centesimi siriani”, cioè il prezzo di una cartuccia». Sì, nella vita siriana è diventata questa l’unità di misura di tutto: il rapporto della vita umana con il potere delle armi. E qui, veniamo alla domanda posta da Papa Francesco che legittimamente si chiede chi fornisce queste armi. «È una domanda» sottolinea il Papa, «vorrei che qualcuno mi rispondesse».
Il regime siriano è sottoposto a sanzioni economiche da parte di USA e UE. Sono sanzioni che riguardano principalmente i rifornimenti di petrolio e le transazioni bancarie. Ma in sostanza, denunciava a febbraio l’arcivescovo greco-melchita di Aleppo monsignor Jean-Clément Jeanbart, ciò significa che «la gente non ha più cibo, elettricità, carburante e gas sufficienti per riscaldare le case. Non riesce a ottenere prestiti e andare avanti».
La fornitura di armi, invece, va avanti a gonfie vele e riempie gli arsenali del regime. «Quando tornerà in patria?» chiedono a Michel Kilo. «Quando cadrà il regime» risponde. «Fra un anno, spero». Una speranza che ogni uomo libero dovrebbe con decisione sostenere.
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