Che non attraversi un periodo di particolare fascino pare pacifico. Ma di qui a dire che «non c’è più fede in questo mondo » ne corre. Già però la firma del breve e originalissimo saggio su La fede scomparsa. Cristianesimo e problema del credere, appena edito da Morcelliana, mette al riparo da ipotesi apocalittiche – che pure hanno un loro, discutibile, seguito – per portare sulla pista della provocazione intellettuale, tanto più utile in quanto si coglie in giro una certa aria di fatalistica incomprensione dei fenomeni. Perché Adriano Fabris non solo è filosofo di sguardo acuto ma ama sfrondare i suoi ragionamenti da ogni minima traccia di semplificazioni. Specie se a interrogarlo sono questioni epocali come quella che tutti – pastori e laici – ci troviamo a sperimentare: una fede già fragile sembra essersi come arresa davanti alla complessità di un mondo indecifrabile, che il rapido succedersi delle crisi ha reso ancor più apparentemente allergico a letture religiose. A che serve allora la mia fede, se sembra valere solo per me e per quelle piccole comunità di credenti che frequento e vedo? Perché questo senso di inospitalità dell’«età “neomoderna”» come la definisce Fabris? Siamo alla vigilia di una imprevedibile primavera credente oppure il senso di stanchezza e di autoreferenzialità che troppo spesso si respira (anche nella nostra personale vita religiosa) è solo destinato a consolidarsi?
Forse è perché la fede che abbiamo in mente non è fede nel senso proprio: è questa, in massima sintesi, l’ipotesi di Fabris, a parere del quale sono «fraintendimenti, deviazioni, depistaggi » a spiegare «il perché della perdita della fede e le difficoltà di un suo eventuale ritrovamento». L’autore esplicita in premessa che la «mentalità occidentale, che pone al centro l’essere umano e innanzi tutto le sue esigenze materiali, ha permeato culturalmente ogni luogo», una «versione ideologica della globalizzazione» che «non coincide affatto, oggi, con la fede cristiana », sebbene «non è che in tale mentalità scompaia la necessità di credere». Il fatto è che «sono altre le istanze che intervengono, dall’esterno, a dirigere le dinamiche umane e ad alimentare le loro motivazioni». La fede non è scomparsa, per così dire, anagraficamente: ne restano però versioni fake come quella di chi ne fa «il pretesto per un rigetto del mondo presente, che mi fa paura», o di quanti ne hanno adottato un modello ispirato alla «scelta autonoma e individuale del modo di credere» spazzando via la «necessità di far ricorso alle istituzioni religiose, ai loro simboli consolidati e alle loro tradizionali pratiche». Se è vero che «per sei italiani su dieci la religione è un orizzonte di senso importante», però ormai più che «”fai-da-te”», come usava dire, è oggi «caratterizzata dal fatto che da essa si prende di volta in volta ciò che serve, che interessa, che offre un’emozione, senza che ci si senta propriamente vincolati a tutto quel bagaglio culturale e dottrinale implicato da ciò a cui si attinge».
Che fede può mai esprimere la «religione di consumo » di questi «credenti autonomi»? Ed è davvero fede, questa? Perché se è “tutta qui”, allora ha ragione Fabris: la fede è proprio «scomparsa ». Ma l’osservazione di questa «debolezza del credere», ripercorsa senza sconti in pagine di incalzante analisi e limpido fascino espositivo, mette Fabris e il lettore sulla strada dell’incontro con la fede autentica che, intatta, è ancora lì ad attendere la nostra presa d’atto che l’incontro personale con Dio che ci precede e ci chiama per nome – è di questo che la fede tratta, e a forza di gravarla di aspettative e compiti l’abbiamo perso di vista – è un’esperienza sempre nuova, che forse ancora non abbiamo davvero vissuto. Perché la fede è «qualcosa che coinvolge l’essere umano e gli cambia la vita» oppure è solo una delle tante proposte di senso sempre incomplete e insoddisfacenti che ci vengono offerte sul mercato delle credenze. Si va dalla pretesa di “dimostrare Dio” a forza di ragionamenti al trionfo del paradigma tecnologico che offre salvezza con gli stessi strumenti che ci sfrattano dalla nostra umanità: «Allo scopo di ottenere il pieno dominio sul mondo e su noi stessi, accettiamo di essere esautorati dal controllo su ciò che ci riguarda».
Un bel paradosso, al pari del modo in cui «scambiamo il bisogno con il desiderio», l’appagamento tramite consumo (o anestesia della privazione) e ciò che «ci rinvia a un’altra dimensione» Tutte espressioni dell’idea rassegnata che «la vita si risolve nel suo puro e semplice esercizio». Non ci basta, non viviamo per questo. Fabris ce lo ricorda con tono esigente, una franchezza oggi preziosa, riportando alla sorgente dell’essere cristiani in «una dimensione di relazioni», di «fiducia » e di riconoscimento di «un mondo sensato ». Ce n’è abbastanza per dare una svolta.
Di Francesco Ognibene da Avvenire di venerdì 24 marzo 2023
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