Il fenomeno “The Bad Guy” raccontato dai registi materani Giuseppe G. Stasi e Giancarlo Fontana

“Una gran serie TV”, “La serie più internazionale che possa esserci”, “Il Padrino 2 delle serie TV”, “Una nuova eccezionale stagione”, “The Bad Guy con la stagione 2 si fa ancora più grande”… e si potrebbe continuare così, a leggere i titoli delle recensioni entusiastiche per “The Bad Guy 2”. Tutte meritatissime, ma è solo guardandola su Prime Video che ci si può davvero rendere conto della genialità dei due registi, i materani Giuseppe G. Stasi e Giancarlo Fontana.

Si tratta di un prodotto impeccabile da ogni punto di vista: non c’è una sbavatura, una caduta di stile, un’imprecisione o qualcosa che faccia dubitare della costruzione minuziosa di una trama pressoché perfetta per quanto complessa. Immagini, dialoghi (la sceneggiatura è firmata da Ludovica Rampoldi, Davide Serino e dallo stesso Stasi) e musiche sono sempre strettamente intrecciati e non c’è niente di scontato. Bisogna fare attenzione ai dettagli per cercare di intuire le piccole rivelazioni che saranno poi fondamentali per lo sviluppo delle varie vicende. E convincersi di una cosa: in “The Bad Guy” bene e male sono concetti molto molto sfumati, che spesso collimano.

La storia è quella di Nino Scotellaro, pubblico ministero siciliano che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta contro la mafia, improvvisamente accusato di essere uno di coloro che ha sempre combattuto: un mafioso. Dopo la condanna, senza più nulla da perdere, Nino decide di mettere a segno un machiavellico piano di vendetta, diventando il “bad guy” in cui è stato ingiustamente trasformato. Ha lottato una vita per arrivare a Mariano Suro, il Capo dei Capi di Cosa nostra, senza mai riuscirci. E ora che si trova davanti a lui, con la falsa identità di Balduccio Remora, “cugino dell’America del Sud”, è pronto a vendicarsi.

La seconda stagione di “The Bad Guy” – disponibile da un paio di settimane su Prima Video – si gioca sulla guerra per l’introvabile archivio di Suro, anni di intercettazioni tra il boss e pezzi grossi dello Stato. Tutti lo vorrebbero: Nino, Luvi, Il Maggiore Testanuda, Teresa, Leonarda. L’archivio diventa, così, un campo di battaglia esistenziale tra passato e futuro, una bomba ad orologeria pronta ad esplodere nelle mani di chi riuscirà ad impossessarsene.

Nel cast (gli attori sono superlativi, nella loro forma migliore), a parte Lo Cascio (Scotellaro) che si esprime quasi sempre in un dialetto siciliano stretto, ci sono Claudia Pandolfi (la moglie di Scotellaro), Vincenzo Pirrotta, Selene Caramazza, Giulia Maenza, Antonio Catania, Fabrizio Ferracane, Alessandro Lui, Aldo Baglio e Gianfelice Imparato. Tra le new entry spiccano Stefano Accorsi e Carolina Crescentini.

Abbiamo intervistato i registi Stasi e Fontana.

“The Bad Guy” ha una trama che per quanto sia incredibile è però molto realistica. Come è nata?

“Abbiamo attinto molto all’attualità di allora, parliamo del 2016, quando è nata l’idea, ancora tristemente attuale: la continua delegittimazione della magistratura da parte sia delle forze politiche sia dell’opinione pubblica. Ci sembrava che raccontare l’azione iperbolica di un magistrato che viene colpito dalla macchina del fango – per perdere potere, per essere inoffensivo, per essere disinnescato… – fosse abbastanza allegorico, rappresentativo dell’Italia. Andando avanti la storia prende una piega da romanzo epico, un po’ alla Conte di Montecristo, ma si nutre costantemente di storie vere. Pensiamo, ad esempio, all’Acquapark che, per quanto assurdo, in realtà è ispirato a un fatto reale: in Sicilia ci sono Acquapark intestati a mafiosi o persone colluse con la mafia. O, nella seconda stagione, pensiamo alla scena del selfie con il vigile urbano, chiaramente ispirata ai selfie che Matteo Messina Denaro rilasciava agli infermieri. Ancora, il maggiore Testanuda, interpretato da Stefano Accorsi, è vagamente ispirato a personaggi realmente esistenti, capigliatura compresa. Quando ci dicono che facciamo delle opere grottesche, noi rispondiamo che è la vita ad essere grottesca; cerchiamo solo di renderla un pochino più bella esteticamente, e godibile.”

La trattativa Stato mafia fa da sfondo a “The Bad Guy”. In che modo vi siete documentati?

“Esistono vaghissime tracce di chi era coinvolto nella trattativa Stato mafia. Il figlio di Ciancimino riporta alcuni episodi in cui era coinvolto, appunto, il padre, l’ex sindaco mafioso di Palermo, con gli incontri con un generale dei Carabinieri e un ministro. Chiaramente sono testimonianze che dovevano essere accertate, comunque esiste tutta una letteratura di inchiesta che dà per certa questa trattativa. 

Noi eravamo piccoli, i nostri genitori ce ne hanno parlato. È stato un periodo sanguinosissimo, terribile. Abbiamo voluto elaborare la nostra versione della trattativa Stato mafia mettendoci quel lato grottesco di cui sopra, che però per certi versi rappresenta il contrappunto migliore a un contesto così drammatico.

Avere il boss mafioso in accappatoio che riceve lo Stato nella camera d’albergo di lusso nel centro di Roma, ci sembrava una giusta rappresentazione di quelli che erano i rapporti di potere dell’epoca: il boss che è praticamente in déshabillé davanti allo Stato e lo Stato che si inginocchia chiedendo in cambio arresti. Abbiamo provato, anche qui, a smitizzare e a rendere più misera una scena che avremmo potuto sicuramente girare in una maniera un po’ più epica, però l’epicità non fa parte di “The Bad Guy”, non fa parte neanche dell’Italia.”

Nino Scotellaro/Balduccio Remora a parte, qual è il personaggio al quale siete più affezionati?

Gianfranco Fontana: “Personalmente mi sono trovato molto legato al personaggio di Luvi Bray interpretato da una splendida Claudia Pandolfi. Non so se l’aver conosciuto Claudia – che, prima di essere un’attrice straordinaria, è una persona empatica, umana, una di noi – influenzi la mia la mia risposta, ma credo che Claudia ci abbia regalato una delle sue migliori interpretazioni di sempre e le siamo grati”.

Giuseppe G. Stasi: “Io sono innamorato di tutti i personaggi, forse perché in ognuno di loro, anche nel più negativo, c’è qualcosa di personale, centellinato, che lo rende umano e gradevole”.

“The Bad Guy” ha riscosso anche nella seconda stagione consensi molto positivi da parte di critica e pubblico. È stato definito “Il Padrino” delle serie tv. Qual è secondo voi il segreto?

“Non ci sono segreti, formule o strategie. In questo Paese prima impariamo a capire che non esistono formule o ricettari per fare una serie di successo, più faremo delle serie di successo. Standardizzare una modalità di lavoro significa fare prodotti seriali in serie – una definizione paradossale – che non interessano a nessuno. Ci provano costantemente, soprattutto le piattaforme, e va bene una volta su cento. 

Il segreto, forse, è fregarsene delle regole, fare quello che piace perché se piace a noi piace anche al pubblico. Tutti i professionisti, centinaia di persone che hanno lavorato – dalla troupe agli sceneggiatori alla produzione, dagli attori alla post-produzione audio-video – mettendo le mani su “The Bad Guy” ci hanno messo anche il cuore, la passione e la voglia di fare un progetto di qualità, bello dal punto di vista visivo e sonoro per intrattenere il pubblico con una storia che potesse dare varie emozioni – dal dramma all’ironia e alla comicità in alcuni casi involontaria. Inseguire la qualità è stata la nostra stella polare: qualità e onesta nei confronti del pubblico, senza prenderlo in giro o dandogli cose approssimative – il “pressappoco” è il vero guaio di questo Paese – senza coccolarlo, anzi probabilmente anche prendendolo, in alcuni casi, a schiaffi. Crediamo che questo sia stato apprezzato.”

Terza stagione di “The Bad Guy” a parte, quali sono i vostri progetti futuri?

“Non rispondiamo sulla terza stagione, non è qualcosa che ci riguarda nel senso che noi potremmo anche dire: ‘Sì, abbiamo tante idee’, ma se Amazon decide che questa seconda stagione non ha raggiunto gli standard numerici per farne una terza, parliamo del nulla. Sui progetti futuri, dopo aver passato quattro anni con “The Bad Guy” sentiamo proprio un bisogno fisico di tornare al cinema con un’opera cinematografica. Crediamo tanto nella sala che in questo periodo sembra rianimarsi, ci sono stati molti casi di film considerati di nicchia che hanno riscosso successo di pubblico. E poi è un’esperienza immersiva che solo la sala ti può dare.”

Rossella Montemurro

Foto Lorenzo Poli

Redazione

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