Il disuso dei luoghi e l’abbandono dei piccoli paesi (e forse anche delle città?)

“La stagione della Laudato si’ nella Chiesa e nel mondo”

Rimanda necessariamente a una capacità di giudizio che sappia valutare a quali rischi è esposta la propria vita e quella dei fratelli. E chiede precise assunzioni di responsabilità che in alcuni casi impegnano seriamente la propria fede. Quando, per esempio, le condizioni ambientali sono tali da rendere invivibile la terra o poco dignitosa la vita… Non può esserci religiosità senza partecipazione alla vita della società e senza fare i conti con le sue contraddizioni”.

Partendo da questa citazione da un articolo di Paolo Tritto pubblicato il 23 maggio 2021 nello stesso giornale Logos, vogliamo legare una riflessione sui piccoli comuni, che vivono e devono fare i conti con quelle contraddizioni che rendono la vita della popolazione anziana e in particolare dei giovani, poco dignitosa, perché non trovano né ascolto né attenzione.

A seguito della pandemia da Covid 19, si avverte la necessità di trovare un modo immediato per individuare degli spazi capaci di metterci al riparo dal pericolo. È arrivata così la rivincita dei piccoli paesi, paesi delle aree interne dell’Italia, che in maniera retorica sono stati per anni dipinti come quadretti romantici e pittoreschi e narrati con un tono epico ed ancestrale. Questo romanticismo, a tratti stucchevole, è solo una delle tante erronee narrazioni che ci distolgono dall’analisi delle criticità e, quello che è peggio, dalla loro risoluzione. Prendendo ad esempio due realtàcome i nostri piccoli paesi di Cersosimo e Petina, il primo nella profonda provincia di Potenza, il secondo nella profonda provincia di Salerno- un meridione del meridione- torna alla mente quello che Carlo Levi scriveva nel libro “Un volto che ci somiglia – Ritratto dell’Italia”:

“Essi possono vedere qui, e, direi, sono costretti dalle cose a vederli, uniti in modo non dissolubile in ogni immagine, non solo il luogo, ma il tempo: un luogo che è il tempo; il tempo che è un luogo. Ritroviamo cioè, nell’aspetto dell’Italia, non soltanto le infinite realtà particolari, le innumerevoli vite individuali, e le città, i monti, gli alberi, i fiumi, i mari, le nuvole, le ricchezze, le miserie, i beni, i mali, le gioie, i dolori, la cronaca, i problemi, il tessuto dell’esistenza, tutto il multiforme e mutevole presente, ma tutta la memoria in un volto che ci somiglia”.

Levi descrive con efficacia la ricchezza e la bellezza del nostro Paese, non solo delle città più conosciute, ma di tutto il suo territorio: lo descrive come se stesse dipingendo e da questo dipinto viene fuori un’immagine di profonda attualità. In fin dei conti, dovremmo cominciare a riguardare le città e i paesi per ristabilire un punto di equilibrio, visto che, da almeno un trentennio, le prime hanno sempre primeggiato sui secondi. Con l’emergenza sanitaria che viviamo siamo costretti a non ignorare più il fatto che sia la città, sia il paese sono prodotti dell’antropizzazione con cui l’uomo usa e gestisce il proprio territorio: un prodotto sociale che scaturisce da tanti fattori, in primis quello culturale. Che lo si voglia o no, siamo una cultura votata al consumismo, incapace di vivere come un tempo nell’ottica del riparare, del ripristinare, del riqualificare, del ridare una nuova vita e un nuovo uso alle cose, ai luoghi, alle comunità. Basta fermarsi un attimo a guardare i loro centri storici per fare una constatazione immediata ed evidente anche dai non addetti ai lavori. I centri storici, nonostante il lungo dibattito sulla loro conservazione e sul loro recupero, vedono l’esodo dei residenti e vengono aggrediti da interventi che ne snaturano il luogo e il senso: nelle città, se va bene, diventano luoghi di accentramento di esercizi commerciali e, se va male, zone di degrado e abbandono; sorte analoga tocca ai paesi, dove il centro storico resta fatiscente e abbandonato, oppure snaturato con maldestri interventi di ristrutturazione edilizia, del tutto ignari delle tradizioni e delle tecniche costruttive locali. Per gli uni e per gli altri rimane la costante dell’abbandono, delle porte chiuse e trincerate, che non vengono più aperte se non dal degrado e dalla natura che si riprende il suo spazio. Oggi la desolazione, l’abbandono, il silenzio sono elementi caratteristici dei paesi, e in un certo senso anche delle città, ma hanno una natura differente: nelle città l’incuria e l’abbandono spesso derivano dall’incapacità di riuscire a portare quei servizi di urbanizzazione primaria che spesso nelle zone di nuova espansione, con incredibili atti speculativi, vengono considerati opzionali, non indispensabili per la loro vivibilità. Per i paesi, queste sono costanti che ritornano, ma nascono dal problema opposto, e cioè dal processo di spopolamento che inesorabilmente li ha colpiti e travolti; per i pochi abitanti che rimangono, poi, diviene sempre più difficile vivere e vivere bene, per l’assenza dei servizi alla persona, che non vengono finanziati perché “economicamente insostenibili”, ma anche perché la continua emorragia di partenze senza più ritorno dei giovani e del tessuto più vitale della popolazione, riduce sempre più le possibilità di incontro e di confronto: viene così a mancare la linfa vitale rappresentata dalla relazione con l’altro, che è sempre occasione di  crescita. Il fenomeno che travolge i piccoli paesi è quello della dimenticanza, del disuso e della perdita di senso e di valore, che porta ad un effetto domino di incapacità e di assenza di volontà nel trovare alternative percorribili.

Ma anche tra paese e paese ci sono delle differenze nella natura dello spopolamento o nei suoi tempi, in alcuni luoghi più accelerati e degenerati, in altri con piccoli margini di speranza. Tutto questo è dovuto al contesto territoriale in cui i paesi sono collocati: se si paragonano le piccole realtà lucane e campane, si nota che, pur essendo molto simili, in quelle campane, come Petina, c’è una sopravvivenza maggiore, perché fanno riferimento a centri più sviluppati e vivi quali Salerno e Napoli, con cui hanno dei collegamenti migliori e più immediati, senza essere costretti a trasferirsi. Questo determina una diversa prospettiva e fa sì che Petina abbia una chance di sopravvivenza in più rispetto a Cersosimo, il cui isolamento è ormai irreversibile.

Vista scorcio di Cersosimo
Vista panoramica di Cersosimo

Scorcio con dettaglio del campanile di Petina, 2012

Scorcio con dettaglio del campanile di Petina, 2012

Realtà del tutto differente per i paesi lucani, che non hanno né città importanti capaci di offrire servizi e opportunità lavorative all’interno della propria regione, né mezzi di collegamento efficienti. Questo si riverbera negativamente in termini sociali e politici e la costruzione di una opportunità di lavoro, diventa sempre più remota.

Vista piazza Cersosimo
O. Campitelli.  Monti Alburni e Petina, 100 x 150 cm, acrilico su tela, 2020

Un altro enorme problema, che ostacola l’approccio dei piccoli paesi al mondo digitalizzato, determina da un lato la naturale inadeguatezza di un personale ormai alla conclusione della propria attività lavorativa, senza più stimoli, che fa fatica a mettersi al passo con il mondo della modernità positiva, e dall’altro la totale assenza di un piano di nuove assunzioni, che non solo vadano a sostituire il personale in via di pensionamento, ma che prevedano nuove figure professionali specializzate e qualificate ormai indispensabili. Così, chi volesse assumersi il gravoso compito di amministrare un piccolo borgo va incontro a non poche problematiche, avendo scarsissimi strumenti per risolverle. In conclusione, ci pare evidente che i problemi che vivono i nostri piccoli paesi, sono sia inquadrabili nella totale assenza di una politica nazionale, e sia di un’adeguata organizzazione degli apparati amministrativi per il governo del territorio. L’abbandono, la decadenza e la crisi sono la conseguenza naturale di più di un trentennio in cui non ci si è attrezzati per risolvere i problemi e si è snaturato un sistema di gestione territoriale che non può essere omologato ma che deve conoscere e riconoscere le peculiarità territoriali per poterle gestire e promuoverle in modo differenziato e adeguato.

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Domenico Infante

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