Tra le opere del teologo italotedesco Romano Guardini, c’è un vecchio libro che si intitola Lettere sull’autoformazione, edito in Italia da Morcelliana. È un bel libretto di agevole lettura, pregio notoriamente assai raro tra gli scritti dei teologi. Si tratta di lettere indirizzate a giovani amici tedeschi, negli anni drammatici che hanno preceduto la Seconda guerra mondiale e l’avvento del nazismo. In esse si può senz’altro vedere tutto lo spirito giovanile che caratterizza il cristianesimo di Romano Guardini.
Con questi scritti, il teologo riesce efficacemente a presentare la fede cristiana come espressione di una giovinezza, di una freschezza di vita. Che proprio perché legata alla fede non può trattarsi che di una giovinezza perenne. Scaturita direttamente dall’eterna giovinezza di Dio. Un tempo della vita, la giovinezza, che non può assolutamente essere saltato, non fosse altro perché è un tempo in cui propriamente germoglia e matura la vocazione personale.
Una vocazione che, essendo espressione della giovinezza, è vocazione alla letizia. Perché di questo si tratta quando si considera il dono della fede. «Questo vi ho detto» dirà Gesù, «perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena». Questa promessa, per Guardini, trova immediata corrispondenza nel cuore umano: «Noi vogliamo far sì che il nostro cuore divenga lieto».
Nella loro vita, gli uomini possono trascurare tutto, anche il proprio io e Dio stesso, ma non è possibile censurare questa esigenza della letizia che si portano dentro e che rende sostenibile la fatica; altrimenti il carico della vita sarebbe troppo gravoso. «Quella gioia» ricorda Romano Guardini, «che germoglia dalla forza e dalla sicurezza di una giovane vita». Non si può essere cristiani senza il desiderio di vivere la giovinezza come forma della vita.
Nonostante ciò, è facile smarrire questa letizia. Per le contrarietà che alcune circostanze possono arrecare, per la pesantezza della vita, per la sofferenza. Noi siamo fatti anche di un corpo e quando siamo abbattuti il corpo si accascia. È quello, suggerisce Guardini, il momento di rialzare la testa. E con il gesto di rialzarsi, anche il corpo esprime la gioia.
«Se la gioia viene da Dio» si chiede però il teologo, «e Dio ha sede nel nostro cuore, perché non lo sentiamo?» La spiegazione è nella difficoltà che l’uomo ha nel capire in quale direzione cercare la propria felicità. Ma se l’uomo su questo è disorientato, Dio invece conosce bene quale sia la direzione e sa come guidare l’uomo fino a questa sua felice destinazione. È Dio che sa cosa l’uomo desideri veramente. Pertanto, prosegue Guardini, «Ogni volta che sinceramente diciamo al Signore: “Signore, io voglio ciò che tu vuoi” è aperta la via verso la gioia di Dio. […] Ma come scorgiamo che cosa Dio vuole? Non abbiamo bisogno per ciò di profonde meditazioni o di grandi piani. Lo vediamo in ogni cosa, anche la più comune: nell’attimo presente».
È questo, per Guardini, il perno attorno al quale ruota tutta la fede. L’istante, dice, «è un nunzio di Dio», un messaggero che rivela la strada e che resta in attesa di una nostra risposta. Che ci chiede se questa misteriosa strada vogliamo percorrerla. La risposta più vera per Guardini è questa: «Sì, Signore, volentieri. Quest’ultima parola decide tutto, è ciò che importa. Non a malincuore; non perché si deve; non zoppicando e fiacchi; ma volentieri. Questa parola bisogna però dirla col cuore». Non può che essere così; se è il cuore che pone la domanda e che, smarrito, drammaticamente cerca di trovare la giusta strada, è col cuore che bisogna aderire alla risposta, quando questa viene rivelata. È necessario aderire “volentieri”, come slancio cioè della volontà. C’è da crederlo, dice Guardini, se si pensa che «Dio è proprio lì dentro».
Ma nella sua visione, Romano Guardini, quando indica la strada per la conquista della felicità, non traccia un percorso rinchiuso in un ristretto ambito esistenziale, intimistico; anzi pare se ne tenga alla larga. Pone piuttosto l’accento sul termine “conquista”; su quella lotta che i giovani ingaggiano nella società per raggiungere, per conquistare quello che appare, al loro giovanile sguardo, un mondo più giusto.
Se una felicità esistenzialmente intesa si dissolve nell’appagamento dell’io, nel pensiero di Guardini invece la felicità innesca nell’uomo un’inquietudine che – può sembrare un ossimoro – non trova riposo se non nella lotta. Per la conquista di un bene comune, cui il loro cuore tende, e perciò di un mondo più giusto. È per questo che è necessario il cuore ardente della giovinezza. Ed è per questo che, molti anni dopo, il papa Giovanni Paolo II dirà con insistenza ai giovani: “voi siete la speranza della Chiesa”.
Non si tratta di ingaggiare una lotta contro il potere costituito, come normalmente viene intesa la lotta. Nel pensiero di Guardini ciò deve consistere principalmente in una rivoluzione culturale che richiami gli uomini a una responsabilità personale soprattutto di fronte alla realtà del vivere nella società e alla necessità di una presenza nelle istituzioni civili. Questa è tra le cose cui un giovane decisamente tende. Perché in fondo il desiderio di felicità consiste nel desiderio di una vita adulta, vissuta nella sua pienezza.
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