Durante le epidemie che hanno funestato il mondo nel corso dei secoli, ci si limitava a conteggiare – tra l’altro molto sommariamente – il numero dei morti.
Oggi, riguardo al contagio Covid-19 possiamo conoscere non soltanto il numero dei decessi che si sono verificati per ciascun giorno e praticamente in tutto il pianeta, non soltanto il numero delle persone che si sono ammalate, ma possiamo sapere addirittura, per quanto in maniera sottostimata, il numero delle persone contagiate dal virus, comprese cioè quelle appena sfiorate, come gli asintomatici.
Cosa significhi ciò, è difficile dirlo adesso. Ma certamente questa stratosferica quantità di dati raccolti avrà un enorme valore per fare in modo che in futuro si facciano valutazioni di carattere epidemiologico. E questo rappresenterà sicuramente un significativo vantaggio per le generazioni che verranno, nel caso – Dio non voglia – dovessero fare i conti con altre pandemie. Insomma, siamo provati per le tante sofferenze che la pandemia ha provocato; ma sappiamo anche che i nostri figli avranno armi più efficaci per frontegiare, in futuro, battaglie di questo tipo.
Il settimanale americano Time pubblicava il 14 dicembre scorso una copertina in cui campeggiava un grande 2020 con questa lapidaria didascalia: “il peggiore anno di tutti i tempi”. Il riferimento è principalmente al dilagare del contagio, al terribile bilancio dei morti e a una moltitudine di persone che ha visto la propria vita sconvolta.
È proprio così? Davvero vogliamo rimuovere tutto con un colpo di spugna?
Non si possono certamente chiudere gli occhi su tanti lutti e tante sofferenze. Ma ciò non significa che non si possa considerare quel mondo nuovo sul quale stiamo appena cominciando ad aprire gli occhi. Quel qualcosa di grande che per esempio Papa Francesco, col suo gesto del 27 marzo 2020 in una piazza San Pietro deserta, ha saputo indicarci.
Un tempo, le epidemie distruggevano intere nazioni, decimando le popolazioni. Solitamente queste malattie arrivavano con le navi che trasportavano merci. Una volta che il contagio arrivava a colpire i lavoratori nei campi, i raccolti andavano in malora. E dopo questo, con il blocco del commercio e senza scorte alimentari, interveniva la carestia a moltiplicare il numero dei morti.
Questo oggi non è accaduto. Un elevato livello di automazione nei trasporti ha fatto in modo che navi e treni viaggiassero quasi regolarmente e con pochi membri di equipaggio, cosa che ha ridotto parecchio la diffusione del contagio. Un vantaggio ancora maggiore si è avuto grazie alla meccanizzazione in agricoltura dove l’intervento fisico dell’uomo è oggi molto più ridotto del passato. Per non parlare di chi è occupato nel settore dei servizi, molti dei quali hanno avuto la possibilità di lavorare da casa e di partecipare a riunioni e a eventi a distanza e in sicurezza.
In quest’anno di pandemia, l’economia indubbiamente ha sofferto e per alcuni settori economici è stato un vero disastro. Ma non c’è stato un crollo rovinoso e generalizzato. Non abbiamo lo spettro della carestia all’orizzonte, cosa inevitabile in passato, né il collasso del sistema sanitario. La digitalizzazione dei servizi bancari e del commercio ha permesso a molti di noi di prelevare danaro e di spenderlo, facendo fronte così a tante nostre necessità, senza avere contatti fisici e senza quindi esporci al contagio. Abbiamo, soprattutto, imparato ad apprezzare quanto, imprevedibilmente, la vita ci metteva a disposizione e nessuno mai più potrà cancellare.
Oltre questo, abbiamo accresciuto la consapevolezza di noi stessi. Perché è quando siamo impegnati in una lotta che capiamo chi siamo. E Dio sa quanto ci sia bisogno di capire chi siamo. Un amico mi dice che però con la pandemia abbiamo scoperto quanto siamo egoisti. Non bisogna generalizzare. Quanti esempi di offerta della propria vita abbiamo visto in questi mesi. E quanti altri gesti di solidarietà concreta.
Il mio amico ha comunque ragione nel dire che, per altri versi, scoprirsi più egoisti, significa aver deluso noi stessi. La cosa però non mi scandalizza affatto, perché “scoprire” è sempre qualcosa di positivo, sia riguardo al bene sia riguardo al male. Anzi, scoprirsi peccatori, a pensarci bene, è proprio questa la cosa più grande.
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