«Io susciterò un tuo discendente dopo di te,
uscito dalle tue viscere,
e renderò stabile il suo regno»
Dal secondo libro di Samuele (2Sam 7,12).
“L’annuale solennità di S. Giuseppe ripropone nella liturgia la celebre profezia rivolta da Natan a Davide che voleva edificare a Jahwè una casa perché vi abitasse. Nella prospettiva biblica e teologica la Casa l’avrebbe costruita Dio stesso in Gesù Cristo, tramite la paternità giuridica e civile di Giuseppe, discendente di Davide, l’anello di congiunzione tra il Figlio di Dio, re messianico, e la stirpe davidica”. Con queste parole di padre Angelo Sardone SRJ, superiore del Villaggio del fanciullo ‘S. Antonio di Padova’ dei Rogazionisti a Matera, a commento della prima delle letture che la liturgia di oggi ci propone, ci lasciamo introdurre nella solennità di oggi.
Il nome “Giuseppe” significa “aggiunto”. Nacque a Nazareth, sebbene la sua famiglia, di nobili decaduti con capostipite Davide, fosse originaria di Betlemme. E a Betlemme dovette recarsi con Maria incinta quando Publio Sulpicio Quirinio, governatore delle province di Siria e Giudea nel 6 d.C., dietro disposizione dell’imperatore Augusto, ordinò il censimento.
“Il vangelo e gli scritti sacri, al contrario degli apocrifi che tracciano particolari suggestivi, non riportano alcuna sua parola, né il fatto che fosse un vedovo ottantenne, ma l’indicazione chiara di «uomo giusto»: tace, pensa nel segreto del suo cuore, prende in moglie Maria se pure gravida, salvandola dalla sicura lapidazione, e si attiene alla volontà di Dio nei confronti del Bimbo cui darà il nome Gesù”. Obbedienza, silenzio, pudore, sono gli elementi che contraddistinguono l’identità di questo grande santo che il beato Pio IX nel 1870 dichiarò «Custode della Chiesa universale»”, continua padre Angelo Sardone SRJ.
Il lavoro, un valore sottovalutato
S. Giuseppe è anche patrono dei lavoratori dal 1955 e come tale lo si associa alla festa dei lavoratori dell’1 maggio. Sì, la sua vita fu di duro lavoro, carpentiere, falegname: “faber”, nella Vulgata. Giuseppe si guadagnò il pane con il sudore della sua fronte (cf. Gen 3,19), per sé e la famiglia. E fu nella bottega del papà che Gesù imparò probabilmente il rigore della vita, la fatica del lavoro.
Così, a trent’anni era ormai maturo per capire i drammi della sua gente, affaticata e oppressa dal peso della vita e in cerca di ristoro per l’anima e il corpo. E da uomo del silenzio qual era, Giuseppe ci insegna cos’è il lavoro sodo, la concentrazione, lo spirito di servizio, la discrezione fattiva più che i proclami autocelebrativi delle conquiste sensazionali mietute nelle esperienze lavorative. Non dimentichiamo che chi lavora con serietà e costanza nel tempo è in grado di sviluppare una grandissima esperienza che gli dà il potere di cambiare il mondo. E il lavoro concorre al bene di chi lo pratica con sistematicità e spirito di servizio dando ordine e valore alla sua vita. Ma non solo lavoro: anche famiglia e preghiera, servizio alla Chiesa e – perché no? – sano divertimento. Per primo senza saperlo Giuseppe incarnò l’ideale benedettino dell’ora et labora.
La festa del papà: un paradosso?
Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 1,19-21)
Nella storia provvidenziale di Dio fu chiamato ad essere custode di Cristo come suo padre putativo e protettore della verginità di Maria, sua sposa.
Padre putativo, cioè colui “che si ritiene sia il padre”. In breve ‘p.p.’, letto in spagnolo “pe pe”: era questa sigla che molti religiosi che prendevano il nome di Giuseppe gli facevano seguire per sottolineare che il riferimento al santo di Nazareth e non ad un altro S. Giuseppe. Da qui il nomignolo “Peppe“ con cui molti Giuseppe si fanno chiamare! E padre non significa genitore, cioè colui che genera, ma colui che insegna a camminare nella vita e ad entrare in essa nella libertà. E siccome di Gesù, uomo perfetto e pienamente realizzato, Giuseppe fu encomiabile custode, la tradizione lo ha scelto come modello e protettore di tutti i papà.
Quanto bisogno di paternità nel mondo d’oggi: di riferimenti carismatici, di uomini che sappiano prendersi cura dei figli anche quando pesa (come Giuseppe fuggito nottetempo in Egitto), che non solo capaci di generare biologicamente una sola volta per tutte ma di iniziare ogni giorno all’arte del vivere, non padroni ma guide autorevoli, non amici ma esempi che danno sicurezza! Essere papà oggi è un “lavoro” sottovalutato e sottopagato, diceva proprio oggi in un video don Alberto Ravagnani.
Il bastone fiorito
Nell’iconografia è con il bastone fiorito che spesso vediamo rappresentato Giuseppe. L’immagine affonda le radici in un vangelo apocrifo, il protovangelo di Giacomo.
Maria cresceva nel tempio, allevata come una colomba, e riceveva il cibo dalla mano di un angelo. Al compimento dei dodici anni, il sommo sacerdote chiede indicazioni a Dio circa il futuro di Maria e gli viene risposto di radunare tutti i vedovi della Giudea. Un segno miracoloso mostrerà a chi dovrà andare in sposa.
I vedovi, tra cui Giuseppe, si presentano al tempio e diedero i loro bastoni al sommo sacerdote. Questi entrò nel tempio, li depose, pregò, uscì e li restituì ai proprietari. Giuseppe prese l’ultimo bastone ed esce da esso una colomba che si posa sul suo capo.
«Allora il sacerdote disse a Giuseppe: “Tu sei stato prescelto a ricevere la vergine del Signore in tua custodia! Giuseppe si schermì dicendo: “Ho già figli e sono vecchio, mentre essa è una fanciulla! Che io non abbia a diventare oggetto di scherno per i figli di Israele!”»
Su insistenza del sommo sacerdote, Giuseppe prese in custodia Maria.
Dal protovangelo di Giacomo (capp. 8-9)
Non è l’unica storia. Un’altra tradizione racconterebbe che – ironizzando gli amici di Giuseppe davanti alla sua affermazione per cui Maria era rimasta incinta per opera dello Spirito Santo – uno dei suoi amici lo provocò con tono di sfida: “Se veramente Maria è rimasta incinta come tu dici, che il legno del tuo bastone fiorisca in questo preciso istante!”. E improvvisamente, dal bastone di San Giuseppe, fiorì, maestoso, un giglio.
Anche la tradizione di Giuseppe vedovo ottantenne è stata messa in discussione dall’esegesi più moderna che lo vorrebbe un giovane, pieno di sogni e di forze. Che ha custodito Maria senza consumare il matrimonio non perché non ne avesse più le forze!
E la morte di Giuseppe invece potrebbe collocarsi nel periodo immediatamente precedente l’inizio della vita pubblica di Gesù.
Giuseppe dispensatore di grazie con cuore di padre
Molto meno di Maria invochiamo Giuseppe come intercessore nelle nostre faccende quotidiane: parrebbe un santo “di serie B”. Giuseppe è per questo – dice la pietà popolare – ancor più generoso e attento nel mediare grazie presso il Padre. Ma rimane pur sempre in ombra, in trincea, come nella scrittura in cui la voce non la si sente mai. E l’anno giubilare giuseppino è stato volto proprio a far riscoprire e rivalutare la figura di Giuseppe.
È un’eccezione che in Quaresima, liturgicamente caratterizzata dal colore viola, si vedano i sacerdoti vestiti di bianco, a solennità, il 19 marzo e nella celebrazione eucaristica si intoni il Gloria. Questo basta a farci render conto dell’importanza della solennità di oggi! E a farci riscoprire che «la sua missione è la nostra: custodire Cristo e farlo crescere in noi e intorno a noi» (S. Paolo VI).
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