Ho fatto tutto per essere felice è un libro che racconta la storia di un chirurgo, Enzo Piccinini, che ha voluto scommettere “tutto” sulla sua fede cristiana. Penso che Marco Bardazzi, l’autore di questa appassionata biografia, un giornalista inviato speciale del quotidiano La Stampa, abbia voluto racchiudere in questo aggettivo “tutto” il senso della vita vissuta da Piccinini, bruscamente interrotta all’età di 48 anni per un incidente stradale.
A pensarci bene, il segreto di quella felicità di cui si parla nel libro, è tutto compreso in quell’aggettivo. Enzo Piccinini non ha cercato la felicità in un “qualcosa” che la vita gli poteva offrire, cioè in un particolare. Ha cercato la felicità in tutto, in ogni aspetto della vita. In modo da vivere la propria vita, di impegnarsi con la realtà, con una intensità tale da fargli dire di voler vivere coinvolgendo in questa vita tutto se stesso, mettendo il cuore in tutto quello che faceva.
A pensarci bene, è questa la modalità propria del cristiano, particolarmente del fedele laico, di vivere la propria fede. Coloro che guardavano Cristo, riferisce l’evangelista Marco, «pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa”». Il fedele cristiano si distingue per questo ricercare in ogni cosa il bene – “bene omnia fecit” – e per volere, come ricorda Péguy, fare in modo che ogni cosa sia fatta bene.
Il cristiano non può, evidentemente, fare tutto ciò che Cristo può fare. Ci sono cose che soltanto Cristo può fare, con la sua divinità. Ma tra le cose che Cristo fa, ciò che anche l’uomo potrebbe fare è questo “fare bene ogni cosa”. Perché in ogni cosa ci sia, per quello che è possibile, per quel poco che è possibile, un riflesso di quel Bene che per ogni uomo è Cristo stesso. Enzo Piccinini ha voluto fare questo. Come ha scritto di lui don Luigi Giussani, ha cercato «in ogni modo, la gloria umana di Cristo».
Piccinini è stato un medico che è partito svantaggiato in tante cose. Le condizioni della famiglia di origine non gli consentivano di sostenere senza problemi i costi degli studi in medicina, ha dovuto mettere su una famiglia propria ben tre anni prima di conseguire la laurea, si è trovato a dover affrontare un ambiente di lavoro ostile, per tanti versi ostile alla fede stessa. Questo svantaggio però egli non lo ha considerato un di meno, ma un’occasione per vivere con una maggiore intensità la vita e per cercare di migliorarsi sempre.
I suoi colleghi di lavoro, racconta Bardazzi, riferisono di come il chirurgo Piccinini era risuscito ad avviare collaborazioni tra la sua équipe e i più importanti ospedali americani. Ma la sua passione, la sua curiosità umana era rivolta a tutto. Nel corso di una cena, per esempio, poteva capitare di assistere a una sua brillante esposizione sui trattamenti più innovativi del tumore al pancreas, ma anche – lui che era di Modena – sul modo migliore per ottenere l’aceto balsamico. Insomma, tutto era importante per lui.
A proposito di ciò, c’è qualcosa da aggiungere su questo nostro giornale. Perché la nostra regione è stata una di quelle realtà a cui Enzo Piccinini aveva rivolto la sua passione umana e la sua fede cristiana. Negli ultimi tempi prima della morte, su richiesta di don Giussani, aveva cominciato a seguire con regolarità il gruppo della Fraternità di Comunione e Liberazione della Basilicata. Gli incontri, le assemblee con gli amici del Movimento di CL si svolgevano al centro Padre Minozzi di Policoro, in queste occasioni sempre affollato. Ma il suo rapporto con la Lucania risale a molto tempo prima, ai tempi del terremoto dell’80.
Insieme al suo gruppo di amici, Piccinini fu tra i primi ad accorrere in soccorso ai terremotati. In una bella testimonianza resa recentemete, in occasione della presentazione del libro di Marco Bardazzi, il prof. Lucio Saggese di Castelgrande ha voluto ricordare questa circostanza. «Il giorno dopo il terremoto del 23 novembre dell’80» riferisce Saggese, «quando ancora la situazione non era ben chiara, don Giussani chiese a un primo gruppo di intervento di scendere giù e di valutare se era possibile qualche impegno diretto del Movimento. Per inciso, ricordo che all’epoca non c’era ancora la Protezione civile. Il gruppo di primo intervento raggiunse Matera dove vi era don Tommaso Latronico, sacerdote del Movimento. Questi, insieme a un gruppo di altri ciellini, partirono così per Potenza dove erano riuniti i vescovi lucani per organizzare l’annunciata visita del Papa. I vescovi indirizzarono don Tommaso e il gruppo che era con lui verso Castelgrande che era uno dei tanti paesi sull’itinerario del Papa. Da qui è inizata, forse per il volere della Provvidenza, un’attività che ha portato alla costituzione e alla gestione di un gruppo della Caritas italiana. Don Giussani chiese agli universitari, ma anche a persone un po’ più adulte, di organizzarsi in turni di permanenza. Arrivò subito un gruppo da Torino con don Primo Soldi e poi dall’Emilia il gruppo guidato da Enzo Piccinini».
Di questo impegno diretto di Piccinini nei giorni successivi a quel disastroso terremoto, qualcuno ritiene di trovare tracce in un romanzo intitolato Fuor della vita è il termine, edito da Città Armoniosa, che all’epoca ebbe molto successo e ottenne importanti premi letterari. Il libro era firmato con uno pseudonimo. Una volta, a ritirare il premio, Enzo Piccinini si presentò come autore del romanzo. In un’altra occasione analoga, invece, negò la paternità dell’opera, ma secondo alcuni soltanto per lasciare il romanzo nel mistero di chi fosse veramente l’autore. È un romanzo che descrive con una intensità particolare i drammatici giorni del terremoto e quella grande umanità delle genti lucane che fa dire al misterioso autore che Dio non è morto nei cuori.
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