La lingua italiana, nell’uso che se ne fa nella liturgia, è sempre stata al centro dell’attenzione dei linguisti. Recentemente, per esempio, l’Accademia della Crusca è intervenuta a proposito della corretta forma del termine “eucaristia”. Chiedendosi se sia da privilegiare questa forma rispetto all’altra, anche questa ricorrente, che riporta “eucarestia” con la “e” alla sillaba centrale.
Queste possono sembrare questioni formali di scarsa rilevanza. Indubbiamente si tratta di argomenti che hanno una certa leggerezza, destinate più che altro a soddisfare la curiosità dei lettori e che non pretendono di essere vere riflessioni teologiche. Nonostante ciò, queste questioni relative all’uso della lingua nella liturgia hanno una certa rilevanza. Bisogna considerare la decisione della Chiesa di introdurre nella celebrazione della messa le lingue nazionali al posto del latino e ancora oggi si ribadisce con forza la necessità di privilegiare la lingua parlata rispetto alla lingua del vecchio rito.
Questo non perché, come si ritiene da alcuni, si voglia rendere comprensibile la messa; il sacrificio eucaristico è un mistero nel quale i limiti della ragione umana possono fare ben poco per penetrare. Tale mistero è per sua natura “ineffabile”, non può essere cioè espresso a parole, come amava ripetere papa san Paolo VI. «L’ineffabile mistero di fede che è il dono dell’Eucaristia» recita l’Enciclica Mysterium Fidei. Il ricorso alle lingue nazionali, o lingue volgari come si usa dire, è dettato più che altro dal desiderio di far cogliere ai fedeli la bellezza della liturgia e dei testi liturgici.
In un importante discorso tenuto il 7 febbraio 1969 davanti alle commissioni liturgiche diocesane, Paolo VI invitava a cogliere tutta «la ricchezza dell’espressione e della lingua» nei sacri testi e a «elaborare alla perfezione – sottolineiamo alla perfezione – le traduzioni dei testi liturgici». Si era ormai nella fase di attuazione della riforma liturgica e dell’introduzione delle lingue nazionali nelle celebrazioni.
Riguardo alla parola “eucaristia”, Claudia Tarallo, linguista e docente universitaria, se n’è occupata lo scorso 27 gennaio, come si diceva, sul sito dell’Accademia della Crusca, istituzione deputata alla conservazione della migliore espressione della lingua italiana. In una nota intitolata “Eucaristia/eucarestia: due vocali per un sacramento”, la professoressa Tarallo ricorda che la voce “eucaristia” proviene dal greco ecclesiastico eucharistìa (composto da eu– ‘bene’ e da un derivato di cháris ‘grazia’), dove il termine assumeva il significato di “riconoscenza, gratitudine, rendimento di grazie”.
È davvero sorprendente che questo termine nel corso di quasi due millenni si sia mantenuto sostanzialmente inalterato, salvo quella leggera variante – eucarestia – cui si accennava prima. E che si sia mantenuto tale nonostante sia transitato nel tortuoso percorso che va dal greco antico attraverso la lingua latina per poi approdare all’italiano. È un segno questo del particolare valore affettivo che lega il popolo cristiano al Santissimo sacramento.
La parola eucaristia compare nell’italiano sin dall’origine di questa lingua. Come ricorda la professoressa Tarallo, nella seconda metà del Trecento, Giovanni della Lana nel suo Commento alla ‘Commedia’ di Dante, riporta questo termine, sia nella forma “eucaristia”, sia nella variante “eucarestia”; ed è abbastanza significativo oltre che singolare che ciò si sia potuto verificare nello stesso testo.
I due termini hanno continuato a convivere fino a oggi sebbene, come scrive Claudia Tarallo, vediamo riportato esclusivamente “eucaristia” in testi della Chiesa in qualche modo ufficiali, com’è nelle varie edizioni del catechismo che si sono succedute nella storia e fino al Novecento quando si vede che è «sempre nettamente prevalente la variante eucaristia, come leggiamo nel Codice di diritto canonico, nei documenti del Concilio Vaticano II o nei testi di Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e di Papa Francesco».
Come spiegare quindi la persistenza nei secoli della variante “eucarestia”? «Un’ipotesi» spiega la professoressa Tarallo, «potrebbe essere un probabile incrocio con la più diffusa carestia, di etimo incerto ma in cui si riconosce la stessa base cháris ‘grazia’ (DELI, s.v.). Dalla medesima radice greca, quindi, si sarebbero avute eucaristia e carestia».
Come si vede, si tratta di un accostamento non particolarmente felice, un esempio di corruzione linguistica provocata da una somiglianza fonica e grafica; inconveniente nei confronti del quale, come si è visto, la Chiesa è sempre stata vigile. Per tutti questi motivi, secondo la studiosa, il termine eucaristia «non solo in ambito liturgico ed ecclesiastico, è da preferire negli usi della lingua più sorvegliati. Tuttavia, il fatto che eucarestia abbia circolato e continui a circolare, sia pure in misura minore, fin dai primi secoli della nostra storia linguistica non ci autorizza a estrometterla dall’uso comune».
Aggiungiamo che restano comunque valide le ragioni di ordine pratico, stante l’impossibilità di utilizzare una forma diversa da eucaristia per la formazione dei relativi aggettivi. Termini come “sacrificio eucaristico”, “adorazione eucaristica”, “specie eucaristiche”, eccetera, non ammettono varianti.
Importante è anche che la Chiesa continui a vigilare scrupolosamente sull’uso della lingua italiana, come su tutte le altre lingue nazionali, secondo le precise raccomandazioni fatte all’epoca da Paolo VI. Purtroppo i rischi da questo punto di vista non mancano, considerando che adeguate conoscenze della lingua italiana non sono più richieste nella formazione dei seminaristi e l’insegnamento dell’italiano risulta inspiegabilmente assente nei percorsi di studio degli istituti di scienze religiose.
È bene che la lingua della liturgia continui a essere scrupolosamente legata alle migliori espressioni stilistiche e ortografiche. Perché la liturgia possa sempre risplendere in tutta la sua bellezza e anche – perché no? – per continuare ad arricchire la lingua italiana.
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