Nella Divina Commedia, Dante investe il suo genio nell’inventare parole che ancora oggi usiamo. Nello sforzo titanico di trasformare in stupore e bellezza poetica i propri ideali, ha statuito autorevolmente la nomenclatura e la semantica linguistica del bel Paese dove il sì risuona.
Fatemi passare nel titolo l’improbabile gioco di parole tra Dante e identità, perché è impossibile non pensare al sommo poeta in questi giorni e non solo in vista dell’avvicinarsi del settecentesimo anniversario della sua morte (14 settembre 1321). Mi affretto intanto a tranquillizzare subito i lettori: la parola ‘crisi’ non ha in questo caso niente di negativo, è piuttosto da intendere come un’opportunità di crescita nella migliore accezione del termine, un’occasione di riflessione (e per qualcuno speriamo anche di ravvedimento) sulle radici più nobili e sui fondamenti stessi della nostra cultura posti in essere dall’opera del grande fiorentino. Per questo plaudo al DANTEDI’, al punto che se dipendesse da me ne farei l’ottavo giorno della settimana. Pensate: poter contare su un giorno interamente dedicato al meraviglioso mondo poetico dantesco, un otium garantito per legge che interrompa lo stress che ci attanaglia per condurci ad una visione alta, immensa, ad un punto di vista supremo che mostri il pianeta Terra come l’aiuola che ci fa sì feroci.
Ho amato Dante di un amore sviscerato fin dall’adolescenza, quando pareva venirmi incontro uscendo dalle pagine della Divina Commedia per condurmi nella ricerca di me stessa come aveva fatto Virgilio con lui. Sì, perché Dante è il genio visionario per eccellenza e come tale si spinge sempre in avanti. Il suo obiettivo è il più alto possibile: la visione di Dio ante mortem, la più ardua ricerca filosofica e teologica che sfida i limiti delle possibilità umane. Si tratta di un percorso che attraversa tutte le possibili strettoie degli errori e dei peccati, espresso in un linguaggio arduo e sublime, fatto di allitterazioni e giochi di consonanti, metafore e allusioni per rendere allegoricamente l’idea della difficoltà di esprimere in parole umane il dramma della salvezza. È il miraggio di quanti ardiscono di attingere all’indicibile, il linguaggio dei poeti, dei filosofi ma anche dei musicisti. C’è tra l’altro uno studio musicale straordinario nei versi di Dante: la metrica delle sue rime dice della sua genialità. Ed era già Aristotele a sostenere che, per dire l’indicibile, il poeta deve essere divino e di pieghevole ingegno, espressione che potremmo prendere come definizione ante litteram della creatività artistica all’ennesima potenza, come un problem solving teologico-linguistico basato sull’immaginazione.
La ricerca dantesca dell’Incommensurabile, dell’assoluto – tipica del pensiero medioevale – conduce nel percorso dell’oltre, in quell’ulteriorità che si colloca fuori e dentro del Sé, sulla base di un’esperienza ‘transitiva’ che consente all’uomo di contemplare francescanamente l’Infinito nel finito, la potenza e la bellezza del Creatore nelle creature. Una tale esperienza di trascendenza – vissuta quasi come legge di natura nel Medio Evo – fa compiere spontaneamente all’uomo in ricerca il passaggio dal particolare all’universale, dalla bellezza di un fiore o di un tramonto d’estate alla bellezza infinita del Creatore. La visione transitiva (che è molto più che transeunte) della vita, racchiusa in un mirabile contenitore teologico, rappresenta l’esperienza tipica del credente medioevale, visione che andrà progressivamente attenuandosi nel tempo fino a tradursi nell’immanentismo intransitivo della modernità. Ma Dante vive così profondamente immerso nella sensibilità polifonica del suo aristotelismo rivisitato da S. Tommaso e Averroè, da non sospettare neppure lontanamente quelli che più di due secoli dopo saranno i fermenti del naturalismo rinascimentale di Giordano Bruno.
E che dire del ruolo che assume nel pensiero di Dante la donna amata fin dall’adolescenza – Beatrice – ideale intermediaria di questa transizione oltre il limite dell’esperienza umana verso i valori del Vero, del Bello e del Bene tomisticamente identificati in Dio. Beatrice è ancora una fanciulla di nove anni (e qui la numerologia si fa interessante, perché nove è il prodotto del numero della Trinità per se stesso) quando il poeta coglie per la prima volta nel suo sguardo l’espressione di una profonda vita interiore che lo colpisce, malgrado la giovanissima età di entrambi. Il secondo incontro, avvenuto manco a dirlo a nove anni di distanza dal primo, non fa che tramutare in certezza quel lontano presentimento. La sola vista della donna amata costituisce per Dante un mezzo di elevazione spirituale, una carica morale che suscita in lui i più nobili sentimenti, ispirandogli i versi più fervidi e musicali di alcuni tra i sonetti più noti, tra cui Tanto gentile e tanto onesta pare e Vede perfettamente onne salute, inseriti nella Vita Nova. Ma, ad incrinare l’estatica felicità del poeta sopravviene il presagio di quell’evento doloroso che lo lascerà in un grave stato di prostrazione fisica e spirituale: la precoce morte di Beatrice. Egli ne ha il presentimento in sogno, mentre – ammalato – è premurosamente curato da alcune donne della famiglia, alle quali dedica la canzone: Donna pietosa e di novella etade, in cui descrive con mirabile efficacia il proprio smarrimento in vista dell’imminente disgrazia. Il sopraggiungere della morte di Beatrice trova il poeta dolorosamente preparato al distacco e costituisce ai suoi occhi un’ulteriore conferma della santità di lei e del carattere soprannaturale del suo amore. Il distacco da Beatrice produce nel poeta l’esigenza di un profondo rinnovamento interiore che lo induce a modificare la visione dell’amata da persona ideale ed evanescente, il cui amore è mezzo di elevazione spirituale ma anche potenziale occasione di dispersione morale, ad una sorta di personificazione del miracolo: una creatura del mistero la cui breve esistenza palesa una progressione degli avvenimenti che è già rivelatrice del disegno divino.
Ben presto però un’altra donna ‘gentile’ – la filosofia – appare a Dante nella prospettiva di un nuovo amore che per molti aspetti è simile a quello provato per Beatrice e quindi in grado di risollevarlo dallo stato di prostrazione in cui versa. Per qualche tempo il poeta ne è affascinato al punto da porre quasi in second’ordine il pensiero della prima donna, che ormai identificava con la fede nella Rivelazione. Ma ben presto Dante ritorna in tutt’altro ordine di pensieri: la nuova maturità acquisita attraverso l’esperienza filosofica gli consente di aderire con rinnovato fervore intellettuale agli ideali della sua giovinezza, traducendosi in un bisogno di espressione poetica più vasta e profonda. È il primo passo verso la realizzazione dell’opera più impegnativa preannunciata alla fine della Vita nova e che vedrà ancora una volta Beatrice come fulcro di ispirazione. Nella Divina Commedia il ruolo speculativo della filosofia sembra attenuarsi, assorbito dallo splendore della rivelazione impersonata da Beatrice, ma è realtà incontrovertibile che si fa veramente filosofia quando non la si nomina più. Non c’è bisogno di esplicitare le fonti filosofiche di riferimento quando si è alla ricerca della propria identità attraverso la poesia; quando ogni situazione di vita è occasione di indagine filosofica, teologica, scientifica, artistica, ecc. La filosofia – come scienza di nessi logici, connessioni, interpretazioni, relazioni, emozioni – è (ed è sempre stata) semplicemente… ovunque.
Nella Divina Commedia, Dante investe il suo genio nell’inventare parole che ancora oggi usiamo. Nello sforzo titanico di trasformare in stupore e bellezza poetica i propri ideali, ha statuito autorevolmente la nomenclatura e la semantica linguistica del bel Paese dove il sì risuona. Basterebbe questo per fargli meritare la nostra eterna gratitudine di parlanti italiani, di una lingua che nasce dalla poesia e approda al melodramma. Diciamo pure con Roberto Benigni: «È come uno che fa il maniscalco e fa sia il ferro di cavallo che il cavallo. Dante ha inventato tutto!». Forse per questo qui in Italia non abbiamo tanto bisogno di difenderci dal diluvio di anglicismi che da tempo inonda la tecnologia e la cultura mondiale, come fanno i francesi che chiamano puntigliosamente il mouse souris (topo) e il computer ordinateur. Basta amare la musicalità della nostra lingua e ascoltare ogni tanto un toscano (meglio se anziano, meglio se donna) parlare il suo idioma intriso di medioevo e fantasia per evitare il rischio di cadere nell’esterofilia, esibita con l’uso ossessivo di vocaboli estranei alla nostra cultura. Il che ovviamente non vuol dire trincerarsi nell’autoreferenzialità linguistica e rinunciare al piacere di parlare correntemente una o più lingue.
Chi ha letto e riletto per gusto ed interesse (e non solo per dovere scolastico) la Divina Commedia non guarda più le persone con superficialità, ma come altrettanti scrigni di un mistero, depositari di un destino immenso e singolare. Nei versi danteschi si legge tra le righe che siamo tutti protagonisti di un dramma epico straordinario che dopo di noi non si ripeterà più. La Commedia dantesca è l’opera letteraria che più di ogni altra ci fa sentire capaci di vivere l’amore. “C’è la teologia ed è il libro del desiderio, ma è anche scritta sugli occhi di una donna. E nulla sarà eterno se non ci saranno gli occhi di una donna a suggellare l’inchiostro della penna con cui si scrive.” (Roberto Benigni).
Per gentile concessione di Franco Genzale, dall’omonimo sito web
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