Che sia benedetta…cantare la solidarietà

Una splendida canzone quella della Mannoia che in modo semplice e diretto ci ha offerto occasioni di riflessione  alte e profonde.

Se è vero che si alzano sempre più fragorose, e da più parti le voci, di chi vorrebbe farci credere non solo di vivere in una società liquida (di “Baumiana” memoria) ma addirittura in un tempo liquido poiché sottoposto a mutamenti rapidi e continui e più vero che il nostro stare insieme, la nostra sete di amicizia vera, il nostro venirci in-contro si fanno la testimonianza concreta di quanto sia originale ciò che nella canzone è cantato.

E cioè che Questo nostro tempo che passa non è sabbia (cioè qualcosa che pian piano ci sfugge dalle mani lasciandole prima o poi inesorabilmente vuote) questo tempo che passa è la vita; Nella sua pienezza, nella sua beatitudine, nella sua sacralità.

In un momento storico, allora, in cui è dominante una cultura sociale di stampo prevalentemente individualistico – che francamente sta mostrando tutte le sue debolezze – testi come questo della canzone possono contribuire a determinare un cambiamento di rotta deciso e urgente verso una laboriosa cultura della solidarietà.

Una cultura della solidarietà che sappia costruire nuovi orizzonti di speranza, che sappia (permettetemi) addirittura impegnarsi per organizzare la speranza (come ci suggerì nella sua visita pastorale in Basilicata l’amato san Giovanni Paolo II) e non per elaborare una semplicistica formula consolatoria ma per offrire segni e gesti concreti di impegno al fine di superare le paure e le rassegnazioni di cui troppo spesso ci facciamo vittime.

Una cultura della solidarietà che sappia ascoltare in profondità l’umano, ecco il nuovo umanesimo della solidarietà, che sappia da un lato  guarire quelle miopie sociali che ci impediscono di vedere la bellezza di ciò che c’è e dall’altro faccia crescere la speranza per ciò che deve ancora venire.

Una cultura della solidarietà, che alimentando il ritmo salutare della prossimità e della vicinanza umana, possa favorire l’incontro tra il soffrire e l’offrire.

Del resto l’etimo stesso delle parole soffrire ed offrire evidenzia che la loro radice si trova nel vocabolo “portare”.

Il Portare del verbo soffrire è un so-portare, un portare da sotto un fardello sulle spalle che ci tiene chini e rallenta ( ma non impedisce) una possibile ascesa verso uno stato di coscienza superiore.

Il portare del verbo offrire invece è un portare per dare, per cedere, per donare e il portare dei pani moltiplicati, quel portare tanto consapevole dell’inadeguatezza delle proprie forze (“abbiamo solo 5 pani”)  quanto consapevole del “di più “ di umanità che si sprigiona dalla condivisione. 

Condividendo non ci si impoverisce ma si scopre una autentica abbondanza…una abbondanza che sazia!

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Lindo Monaco

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