Centocinquanta anni fa la nascita del poeta romano

Trilussa e la fede «bella senza li come senza li perché».

Se il suo anniversario fosse uno spettacolo e potesse goderselo in platea, sorriderebbe sornione, idealmente in relax, anzi spaparacchiato, all’ombra di una terza fila, ché le ribalte nonostante tutto gli davano una gran noja. Centocinquant’anni sono passati da quando Roma ha visto sorgere uno dei suoi più grandi poeti dialettali, che fu “romanesco” oltre il recinto della regionalità linguistica, mai difesa come una patente di autenticità poetica, e fu italiano di un’Italia che imparava a essere nazione e perfino divo dello star-system internazionale, come lo si poteva essere tra l’Otto e il Novecento.

Trilussa, Carlo Alberto Salustri al secolo, cambia con la brillantezza della sua arte la sorte del dialetto romanesco, assurto qualche decennio prima a monumento letterario con il Belli, ma per l’ermetismo stesso del suo lessico poco godibile appena fuori Testaccio e Trastevere. Ne cambia la sorte rendendo in certo modo il “suo” dialetto una lingua nazionale, un romanesco semplificato e dunque godibile, operazione che gli vale a un tempo un successo intramontabile e, almeno nella fase di ascesa, gli strali al veleno dei suoi detrattori, che lo sbeffeggiavano come un guitto del vernacolo per il suo progressivo anticonformismo stilistico. È certo che il 26 ottobre 1871 Roma conosce un altro suo grande poveta, che è tale fin dagli esordi, precocissimi, quando sedicenne porta a Giggi Zanazzo, direttore del periodico dialettale Rugantino, i suoi primi componimenti e da cultore di cose e versi romani Zanazzo si rende conto di avere fra le mani un diamante neanche troppo grezzo.

Da L’invenzione de la stampa, che appare sul Rugantino il 30 ottobre 1887, alle rime di Acqua e vino del 1945 — pubblicato dall’amico Mondadori, suo editore unico dal 1922 — per Trilussa sarà una parabola di luccicanti altari e non poche boccate di polvere. Alle tournée italiane e all’estero, protagonista di infiniti reading poetici applauditissimi, e alla lunga stagione da favolista — con il serrajo dei suoi tanti animali che fanno il verso alle meschinità umane, comprese quelle politiche, non senza talvolta audacia (con la poesia Nummeri sfiora lo scontro con il Duce, che pare lo stimasse molto) — Trilussa conosce i morsi della sussistenza finanziaria, resa faticosa da una carriera per sua natura umorale, di un poeta che vive di sola poesia, fino alla solitudine del single controvoglia, del fascinoso re dei salotti che non troverà, pur desiderandola a lungo, la possibilità di legarsi affettivamente.

Nulla che non sia e sia stato documentato ampiamente dalla pubblicistica biografica e dalla critica letteraria. Un aspetto meno sondato, se non dalla filigrana di qualche suo verso, è invece quello del rapporto con Trilussa e la fede. Illuminante in questo scavo intimo è un articolo pubblicato 70 anni fa sulla «Strenna dei Romanisti», l’annuale pubblicazione del Gruppo dei Romanisti, storica associazione di cultori della romanità. La prima parte del numero del 1951 è interamente dedicata alla morte dell’illustre collaboratore Trilussa, scomparso l’anno prima, con numerose testimonianze di suoi amici e colleghi.

Nell’articolo firmato da Ceccarius, al secolo il giornalista Giuseppe Ceccarelli, dal titolo «Trilussa credente», si menziona fra l’altro dell’udienza del 4 luglio 1943, quando Trilussa in compagnia di letterati, giuristi e studiosi italiani viene accolto in udienza in Vaticano da Pio XII , che festeggia il 25° di ordinazione episcopale. Trilussa, che ha contribuito con due poesie — La Stella e Er Ragno bianco — al volume miscellaneo che viene regalato per l’occasione a Pacelli, vive un momento di particolare intensità che più tardi verrà ricordato assieme agli amici più stretti, tra cui Ceccarius. C’è una foto che ritrae il poeta, 72.enne, in ginocchio in segno di omaggio davanti a Pio XII che gli stringe amichevolmente la mano guardandolo negli occhi. Il Papa chiede a Trilussa con una punta di dispiacere come mai da tempo non legga più i suoi versi e lo incita a rimettersi all’opera: «Si rammenti — è la frase rievocata — che lei può far tanto bene!».

Ma anche ben prima di Pacelli le rime trilussiane avevano affascinato i Papi. Ceccarius cita l’abitudine, descritta dai biografi, che Pio X aveva di ritagliare dal «Messaggero» (dove Trilussa pubblicò le sue opere agli inizi del Novecento) i versi del poeta per poi divertirsi a leggerle e commentarle in compagnia, durante i momenti di riposo. E in effetti che le rime trilussiane fossero capaci, con la verve delle loro trovate ironiche e satiriche, di colpire il segno più di un alato scritto spirituale è testimoniato, racconta Ceccarius, anche dall’arcivescovo di Teramo, Gilla Vincenzo Gremigni (1891-1963) che scelse di citare il poeta romano in una lettera pastorale del 1949. Piccoli e grandi squarci d’anima di un uomo invero pudico in questo senso («nun faccio er cantastorie de me stesso», afferma in un componimento di taglio autobiografico) e tuttavia non avaro di parole — Trilussa non lo era mai — quando si tratta di dire quello che ha in fonno ar core.

Quando Nicola Rusconi riferisce su una rivista dell’epoca, «Giubileo», di una visita a Trilussa, riporta la ribellione del poeta all’osservazione di passare per uno scettico. Non lo sono affatto, esclamò: «Non sono uno scettico. Soltanto, sono uno che crede con difficoltà». E tuttavia non incapace di affidarsi come una “creatura” alle mani di un’anziana non vedente che impersona la fede e lo prende per mano, protagonista dell’omonima e celebre poesia citata un giorno anche da Giovanni Paolo I. In tanta riservatezza c’è comunque un (raro) momento in cui Trilussa decise di condividere qualcosa della sua vita interiore ed è significativo che lo fece con un pubblico di bambini. Su un numero del «Corriere dei Piccoli» del 1935 si riportano queste parole del poeta: «Fin da bambino per un istinto profondo ed invincibile ho avuto una fede assoluta in una Provvidenza che regna sugli uomini, in una bontà e saggezza supreme che governano il mondo: in Dio. Mi piace soprattutto dirlo ai ragazzi perché in questo argomento la mia fede è rimasta assoluta, intatta e semplice come quando ero ragazzo. E mi ha sempre aiutato e confortato nella vita».

LA STELLA

La Pecorella vidde ch’er Pastore
guardava er celo pe’ trovà una stella.
— Quale cerchi? — je chiese — forse quella
che porterà la Pace,
che porterà l’Amore?
— La stella c’è, ma ancora nun se vede…
— je rispose er Pastore — Brillerà
appena sarà accesa da la Fede,
da la Giustizzia e da la Carità.

Di ALESSANDRO DE CAROLIS dall’Osservatore Romano del 23 ottobre 2021

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