Censis: la pandemia ha cambiato l’Italia

In oltre mezzo secolo il Censis ha analizzato e descritto la società italiana puntando molto sull’autonomia dei processi collettivi e anche stavolta, nel suo 55° Rapporto sulla situazione del Paese, rileva “tanti sprazzi di vitalità, tanta voglia di partecipazione, tante energie positive”. Ma “la pandemia, rimescolando le carte, ha costretto il Paese a porsi di fronte alle opportunità dell’accelerazione negli investimenti pubblici e privati”.

foto SIR/Marco Calvarese

“L’adattamento continuato non regge più, il nostro complessivo sistema istituzionale deve ripensare se stesso. Siamo di fronte a una società che potrà riprendersi più per progetto che per spontanea evoluzione”. Anche perché a fronte di una maggioranza “ragionevole e saggia” si è levata sorprendentemente “un’onda di irrazionalità”. In oltre mezzo secolo il Censis ha analizzato e descritto la società italiana puntando molto sull’autonomia dei processi collettivi e anche stavolta, nel suo 55° Rapporto sulla situazione del Paese, rileva “tanti sprazzi di vitalità, tanta voglia di partecipazione, tante energie positive”. Ma “la pandemia, rimescolando le carte, ha costretto il Paese a porsi di fronte alle opportunità dell’accelerazione negli investimenti pubblici e privati”. E quindi “è il tempo di un cronoprogramma serio, non importa se dettato da vincoli europei”, c’è bisogno di “riforme strutturali” e di un “intervento pubblico orientato da scelte coraggiose”. Solo in questo modo sarà possibile guidare le quattro grandi transizioni che il Censis così enumera: green, digitale, demografica, del lavoro. Sfide epocali che richiedono come “ingrediente necessario” uno sforzo di “autocoscienza individuale e collettiva”.

“Parlare con parole nuove e affrontare con serietà la fragilità del nostro tessuto sociale è quello che serve all’attuale dialettica socio-politica”, sostiene il Censis, che “nell’orizzonte della ripresa” coglie “un’inquietudine politica, timida e incerta”.

Ma “ben vengano paura e incertezza del futuro, se aiuteranno nuovi modi di pensare e costruire società e istituzioni, di riconnettere tra loro tecnica e politica, vita sociale e attività statale”. A patto che “il sistema politico non si annidi in acquietamento di pensiero, maschera di ogni poco cura transizione”. O peggio ancora finisca in alcuni settori per offrire una sponda alla pulsioni irrazionali che hanno “infiltrato” il tessuto sociale. Per il 5,9% degli italiani il Covid non esiste. Per il 31,4% il vaccino è un farmaco sperimentale e coloro che lo ricevono fanno da cavie. Per il 12,7% la scienza produce più danni che benefici. Ma non solo. Il 5,8% è sicuro che la Terra sia piatta e il 10% che l’uomo non sia mai sbarcato sulla Luna. Questo manifestarsi di “una irragionevole disponibilità a credere a superstizioni premoderne, pregiudizi antiscientifici, teorie infondate e speculazioni complottiste” non è però soltanto il risultato di “una distorsione legata alla pandemia”. Il fenomeno “ha radici socio-economiche profonde”, segue “una parabola che va dal rancore al sovranismo psichico” e ora si sviluppa come “il gran rifiuto del discorso razionale, cioè degli strumenti con cui in passato abbiamo costruito il progresso e il nostro benessere”. Per il Censis “ciò dipende dal fatto che siamo entrati nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali” e quindi “la fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte”. Un dato fra tutti: negli ultimi trent’anni di globalizzazione l’Italia è l’unico Paese dell’Ocse in cui le retribuzioni lorde annue sono diminuite: -2,9% in termini reali contro il +33,7% della Germania e il +31,1% della Francia. La causa principale di questo andamento è nel “gioco al ribasso della domanda e dell’offerta” che con un pizzico d’ironia per le dietrologie populiste il Censis definisce “complotto contro il lavoro”. Il punto è che l’80,8% degli italiani (l’87,4% tra i giovani) non riconosce “una correlazione diretta tra l’impegno nella formazione e la garanzia di avere un lavoro stabile e adeguatamente remunerato”. Non è quindi un caso se “quasi un terzo degli occupati possiede al massimo la licenza media”.

Dunque “l’Italia affronta la grande sfida della ripresa post-pandemia con una grave debolezza: la scarsità di risorse umane su cui far leva”. In questo senso “il primo fattore critico è l’inverno demografico”, aggravato dalle conseguenze del Covid. Nel 2020 il numero di nati ogni mille abitanti è sceso per la prima volta sotto la soglia del 7 e con il 6,8 si è posizionato all’ultimo posto nella Ue (media 9,1). Se “la popolazione complessiva diminuisce di anno in anno”, le previsioni stimano che la fascia attiva (15-64 anni) scenderà dall’attuale 63,8% sul totale al 60,9% nel 2030 e al 54,1% nel 2050.

In compenso la pandemia ha innescato anche una riscoperta della solidarietà. Un terzo degli italiani ha partecipato a iniziative legate all’emergenza sanitaria e tra questi circa un terzo non si è limitato a raccogliere fondi ma si è impegnato in prima persona in attività di volontariato. Positivo anche il giudizio sulla gestione dell’emergenza da parte delle istituzioni: ha dato buoni risultati per il 20,7%, è stata abbastanza adeguata per il 56,3% e solo per il 23% si è rivelata insufficiente.

Di Stefano De Martis dal sito del SIR del 4 dicembre 2021

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