Nella campagna elettorale appena conclusa per le regionali in Basilicata, tra i vari temi che hanno animato il dibattito politico, particolare interesse ha suscitato la temutissima autonomia differenziata. Non sono trascurabili, infatti, i rischi che con questa riforma legislativa si corrono per la tenuta sociale in un territorio come è quello lucano, già pesantemente condizionato dalla scarsità di risorse pubbliche.
I timori maggiori si riferiscono al sistema sanitario dove, per la verità, un certo processo di decentramento già da tempo si è concluso, con il trasferimento delle competenze alle amministrazioni regionali. Un processo che, come si è visto, ha creato drammatici squilibri a livello territoriale, costringendo la popolazione di intere regioni a rivolgersi a strutture ospedaliere lontane, talvolta molto lontane, dalla propria terra. Basta fare un giro negli ospedali del centro-nord per rendersi conto che un consistente numeri di ricoverati proviene proprio dalle regioni meridionali.
C’è da aspettarsi che l’autonomia differenziata riverserà contraddizioni di questo tipo sull’intero sistema paese. Sono molte le materie interessate a questo genere di riforma. Si può dire che con l’autonomia differenziata le Regioni potranno intervenire su tutte le materie proprie della pubblica amministrazione. A parte l’ordine pubblico, la difesa, le grandi emergenze e la politica estera – ma anche sulla politica estera si sa già che sarà difficile tenere a bada gli appetiti regionali.
Sostanzialmente, le Regioni potranno disporre di risorse in via esclusiva, cioè senza che ne sia destinata una parte alle esigenze di altri territori come avviene oggi, in materie come sanità e istruzione – le maggiori preoccupazioni sono per queste prime due – oltre ad ambiente, energia, sport, trasporti, commercio estero e a un’infinità di altre materie.
Il ventennale cammino percorso da questa discutibile riforma, come è facile capire, non è stato del tutto lineare. Il primo ostacolo da superare è stato quello dell’art. 5 della Costituzione dove è scritto a chiare lettere che la Repubblica italiana è una e indivisibile. Nell’anno 2001, con legge costituzionale 3/2001, è stato quindi riformato il titolo V della stessa Costituzione per consentire alle Regioni di operare con più autonomia nella loro azione di governo dei territori.
Ne consegue però che, una volta approvata l’autonomia regionale, i cittadini residenti in regioni meno ricche possano essere esposte al rischio di avere servizi meno efficienti. E quando si parla di servizi il pensiero va, come si è detto, principalmente alla sanità e all’educazione. Qui siamo di fronte a un altro nodo. La Costituzione, infatti, afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini.
Per rispettare questo limite stabilito dalla Costituzione, il legislatore ha individuato lo strumento dei LEP (Livelli essenziali delle prestazioni) che dovrebbe servire a rimuovere ciò che la carta costituzionale, come si è visto, definisce “gli ostacoli di ordine economico e sociale”. C’è da notare a questo proposito che non tutti riconoscono che i LEP possano scongiurare disparità a livello territoriale; anzi, sono forse proprio i LEP a crearle. LEP non vuol dire, infatti, livelli delle prestazioni uguali per tutti ma che vi si garantiscono livelli minimi. Ciò significa che ci saranno cittadini ai quali saranno erogati livelli ottimali delle prestazioni e altri che si dovranno accontentare di un livello minimo. Non siamo di fronte a quella uguaglianza invocata dalla Costituzione. Ma evidentemente, per chi ha poco, il minimo è pur sempre meglio di niente.
A parte ciò, è facile comprendere quanto problematico sia dover portare i servizi erogati dalla pubblica amministrazione su tutto il territorio regionale agli stessi livelli, sia pure minimi. Qualcosa del genere è già stato fatto, con risultati tra l’altro non proprio soddisfacenti, nel campo della sanità. Qui ci sono voluti vent’anni per definire i LEA (Livelli essenziali di assistenza). Quanti anni ci vorranno per definire i LEP? E quanti soldi ci vorranno per realizzarli, considerando le limitate disponibilità del bilancio statale? Certamente non sono esigenze che potranno essere soddisfatte nel corso di un unico esercizio finanziario. Cioè ci vorranno degli anni per realizzare ciò, probabilmente molti anni.
Gli ostacoli che la Costituzione pone all’attuazione dell’autonomia differenziata, come si vede, non sono pochi. L’ultimo di questi è venuto fuori, com’era inevitabile, quando il governo ha posto mano alla dotazione dei capitoli del bilancio statale. La Costituzione nell’art 119 vincola la realizzazione dell’autonomia all’accantonamento di “un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Tale fondo perequativo avrebbe dovuto avere, obbligatoriamente, una dotazione finanziaria di quattro-cinque miliardi di euro, ma allo stato attuale la consistenza di questo fondo è dubbio; non solo, secondo alcuni sarebbe stato addirittura prosciugato di quel poco che aveva.
A questo punto la tentazione dei promotori dell’autonomia differenziata è quella di procedere comunque, anche facendo ricorso all’indebitamento. Una cosa che cozza con il dettato costituzionale che, nell’utilizzo delle risorse pubbliche, impone l’invarianza del bilancio statale, l’equilibrio cioè tra le entrate e le uscite. Come si vede, i nodi cominciano a venire al pettine e la matassa dell’autonomia differenziata è ormai davvero ingarbugliata.
Dal 29 aprile al 3 maggio il dibattito si sposta alla Camera dei Deputati. Si vedrà cosa succederà.
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