Intervento sul tema “Alcide De Gasperi: cristiano, democratico, europeo”, svoltosi per iniziativa dell’Azione Cattolica di Potenza nell’ambito del ciclo “I nostri maestri”, venerdì 11 novembre 2011, alle 18.00, presso la sala-convegni della parrocchia di S. Cecilia. Relatrice Maria Romana De Gasperi
In questa mia conversazione con voi desidero parlare soprattutto dell’esperienza cristiana di Alcide De Gasperi. Un tema che mi ha attratto per lungo tempo. Avevo già affrontato il difficile compito di scrivere una biografia di mio padre, quando mi sono chiesta che cosa, al di là delle contingenze storiche, lo avesse spinto ad affrontare con determinazione una vita tanto difficile quale quella di un cattolico dedicato alla politica.
Ho trovato una sola risposta valida: l’amore per il prossimo contro ogni calcolo, l’amore per la vita come espressione di bene e del lavoro per il bene, l’amore per quel Signore che gli era certo fosse sempre presente e che era la ragione stessa della sua nascita e della sua morte. La politica che sembrerebbe, ai più, il tema dominante della sua vita era invece la diretta conseguenza di quel sentire la continua presenza degli altri. La Politica era il suo modo di amare.
A 17 anni, il Presidente della Federazione delle Società Cattoliche Operaie gli mise in tasca 100 corone, e sotto il braccio 200 avvisi di convocazione, e lo mandò tra gli emigrati del Vorabergh a predicare il verbo della Rerum Novarum di Leone XIII. “Fu ciò che feci – egli stesso commenta – tra le difficoltà di ogni specie, battendomi con i socialisti ed anarchici, mietendo applausi e fischi, sorrisi di compassione, molte busse e una bronchite di tre settimane” … Questo era il clima nel quale lo studente De Gasperi incominciava la sua carriera politica.
Cosa lo muoveva? Certo il suo senso della giustizia, ma anche il fermento religioso e sociale risvegliato dalla lettura di quella grande enciclica, che coinvolse il suo spirito di studente in cerca di grandi ideali, capaci di dare un senso alla vita.
Il suo primo educatore in questo campo fu mons. Endrici, un giovane Vescovo di appena 38 anni, con il suo continuo richiamo agli studenti, all’educazione della volontà e del carattere. De Gasperi gli fece per qualche tempo da segretario, specie nei giorni di vacanza, quando assieme attraversavano le acque del lago di Castel Tolbino su una piccola barca a remi. Nel silenzio dell’acqua, più forti si stampavano nell’animo del giovane De Gasperi le parole di mons. Endrici che egli non dimenticò mai.
Dopo la morte del Vescovo, nel 1940, mio padre lo ricorderà con queste parole in un articolo apparso senza la sua firma sull’Osservatore Romano: ”Quale contributo di riconoscenza dovrei pagare io? Sia lodata la sua memoria perché di contro a tanti pavidi consiglieri che mi suggerivano di abdicare e di piegarmi all’avversa fortuna, mai una parola egli mi disse per diminuire l’impegno che avevo avuto come capo del Partito Popolare … mai un cenno si lasciò sfuggire, che turbasse la dignità della mia coscienza o mettesse in forse il diritto alle mie conversazioni”.
Spiritualità e politica vissero dunque sempre intrecciate e presenti al suo spirito, sembrava che l’una prendesse forza e ragioni di vita dall’altra. Esse camminavano di pari passo, per cui mi è difficile distinguerle e dividerle. La sua fede trovava motivi di esistere per la sua proiezione nel mondo in cui egli viveva.
In uno dei suoi primi articoli pubblicati sul giornale Trentino, di cui era direttore scriveva: “… il primo comandamento di Dio nella Bibbia è un comandamento sociale e di cultura: ‘crescete, moltiplicatevi e sottomettete la terra’ cioè conquistate questa terra con il progresso, con il lavoro, con le arti, con la scienza. … Non rinchiuderti nel tuo microcosmo individuale, ma vivi una vita sociale e dedica le tue cure alla collettività. Il mondo (ancora l’Ecclesiaste) con i suoi beni, con le sue ricchezze, con i suoi misteri, affidò Iddio agli uomini, alle loro dispute, ai loro sforzi di progresso e di ricerca del vero bene”.
Nelle prime battaglie della sua vita politica, quando il Trentino era ancora sotto il dominio austriaco, De Gasperi si batteva perché il pensiero cristiano e le proposte di riforma della società non andassero perdute tra le transazioni, gli interessi regionali, gli egoismi della politica estera di questa regione italiana di lingua e di cultura, ma tedesca di amministrazione e nazionalità.
Nel 1914, ormai giovane deputato del grande impero asburgico, De Gasperi vede scoppiare la prima guerra mondiale e riflette sulla forza della violenza scatenata anche fra gli uomini semplici della sua terra, e li spinge ad uccidere; allora egli scrive amaramente che un solo grido di battaglia aveva fatto crollare tutte le idee di uguaglianza e di fratellanza faticosamente conquistate dalla cultura europea, e come in un attimo quegli ideali erano diventati un mito irraggiungibile.
Ogni popolo, da parti opposte, invocava pubblicamente Dio per la vittoria: “Dio nei parlamenti – egli sottolinea – nelle regge, nelle piazze, Dio fra gli eserciti. Dio perché protegga le nazioni, Dio perché benedica i morenti, perché soccorra i superstiti”.
Pensando a tutto questo, De Gasperi conclude che alla fine, l’unico vincitore sarebbe stato solo Lui, perché cosa sarebbe oggi dei popoli se non restasse loro almeno questo Dio, nella cui fede è riposta ancora ogni speranza?
Nella piccola chiesa di Borgo Valsugana c’è una iscrizione in marmo che dice: “A perenne ricordo di Alcide De Gasperi. Democrazia, onestà e fede per Lui non furono soltanto parole”. La gente più semplice, quella che non gli aveva mai chiesto niente quando era Ministro e Presidente del Consiglio ha sentito più di altri quale eredità egli aveva lasciato. Non sono infatti per i grandi della terra quei brevi appunti, quelle frasi anche in lingua latina che egli lascia scritte un po’ ovunque e che sono invece le tappe della sua pietà, la storia più intima della sua anima, l’indice sicuro della presenza costante del pensiero di Dio nella sua vita come nel suo lavoro.
Se ne trovano sulla carta della Presidenza del Consiglio, su quella del Ministero degli Esteri, come su semplici fogni di carta da macchina con il timbro della prigione. “Domine, ego lumen non sum: oculos esse possum, sed lumen non sum”. Signore, posso essere occhi ma, non luce … Forse era appena uscito dal suo studio qualcuno che gli richiedeva di prendere una decisione grave e difficile … Così sotto il titolo di “tolleranza” si trovava scritto: “Tolera, quia forte toleratus es” dove aggiunge a commento: “Il Signore ha tollerato la presenza e la compagnia di Giuda”.
Non essendo quasi mai datati questi appunti restano in buona parte senza riferimento sia nel tempo, sia nelle persone. “Ogni uomo è come l’erba, la sua gloria dura quanto quella del fiore del campo… La parola del nostro Dio, invece, rimane in eterno” (Isaia, 40 6-8). De Gasperi si rivolgeva a Dio quasi fosse dietro la sua porta, sicuro di essere non esaudito, ma certo ascoltato. Questa fiducia egli la trasportava con grande semplicità dalla vita personale a quella pubblica.
“Perdonami, scriveva, Signore, porto con me nelle mie occupazioni la tua preghiera… prega tu nel mio lavoro e in tutta la donazione di me stesso”. Prega tu quasi fosse logico e naturale dire: io non ho tempo, io lavoro per te, quindi prega tu. L’impegno cristiano nel lavoro era quindi impegnativo quanto la preghiera, era esso stesso un motivo di rivolgersi a Dio. Egli non aveva quel senso negativo del presente che portava a meditare solo sull’assoluto e a trascurare il contingente quasi non fosse anche questo cosa di Dio; il suo realismo cristiano lo aveva portato a partecipare in quanto uomo di fede alla crescita del mondo, pur meditando prima su se stesso e poi sugli altri: “Nessuno pensa che ogni riforma deve incominciare da sé stesso e che se la società raggiungerà lidi migliori, ognuno per conto proprio avrà aperto le ali e preso il volo senza aspettare gli altri. Si pensa a un processo di riforme come ad un movimento fuori dal centro verso la periferia, ma non si risale al centro medesimo che siamo noi stessi”. Si era qui al momento cruciale delle prime riforme dopo la seconda guerra.
Un altro appunto scelgo tra i tanti, per continuare questo discorso dell’intreccio tra la politica e la spiritualità che non lo ha mai abbandonato. Su un foglio trovo scritto: “Domine vivifica me, ne littera occidat me”. Signore, vivificami, affinché la ‘lettera’ non mi uccida. Questo scritto, riportato su un taccuino di lavoro del Ministero degli Esteri, dimostra che conosceva il latino e i riferimenti ai libri sacri a memoria, e come egli scrivesse non in un momento di calma e di meditazione, ma durante un’ora di lavoro. In questo appunto ‘lettera’ sta letteralmente per legalismo, ossia osservanza della legge in senso letterale e non umano. Egli dunque pregava perché nell’applicare la legge non fosse portato a giudicare con troppa severità trascurando quel senso umanitario e quella disponibilità verso il prossimo che era una delle caratteristiche della sua politica.
Egli continua infatti la meditazione ricordando a sé stesso le parole di Paolo: “…e perciò non giudicate prima del tempo…”. Questo rapporto con il Signore non si estingueva nel chiedere, nel pregare, nel pretendere aiuto, ma era anche uno scambio, un’offerta di doni. Tale infatti pare il significato di un commento a S. Agostino quando nelle Confessioni immagina i giusti nel cielo a brillare come gli astri. Allora De Gasperi scrive: “La grandezza del giusto ben più elevata della immanenza, la dignità umana innalzata alla cooperazione divina”.
Non possiamo parlare della spiritualità di De Gasperi se dimentichiamo di parlare del grande amore che egli ebbe per sua moglie, Francesca. Le lettere di un fidanzato (le risposte di Francesca purtroppo sono andate perdute) aprono al lettore un altro aspetto dell’animo di quest’uomo che molti hanno creduto giudicare o descrivere solo nel suo aspetto più severo e serio. In queste lettere, pubblicate qualche anno fa da la “Morcelliana” si apre un de Gasperi dolce, sereno, innamorato, ma cosciente della vita che proponeva alla giovane ragazza che lo amava. “Io sono tranquillo che tu condividerai con me le larghezze, se potranno venire e le strettezze della vita e che in te troverà un sostegno per addolcire qualche preoccupazione, non un aculeo verso guadagni che potessero turbare la limpidezza della mia vita politica…”.
Poi sullo stesso tono ecco una nota di chiarezza molto particolare per i tempi nei quali veniva scritta … “Ti voglio libera compagna, amica di pari iniziativa e indipendenza e nulla mi ripugna di più che il farti da maestro o di frugare nella tua coscienza… ho un grande temperamento fisico e un grande temperamento morale. Del primo tu senti la stretta quando le mie braccia si chiudono attorno al tuo bel corpo, del secondo tu hai la sensazione quanto ti guardo e ti parlo…”.
Sono lettere buttate giù in fretta, alla Camera dei Deputati, con la gente che gli passava accanto gomito a gomito senza possibilità di un raccoglimento; oppure scritte nel suo stanzone freddo dove dormiva, ma sono un crescendo d’emozioni, di idee, di progetti. Continuo è il passaggio dalle espressioni umane e dolci a quelle più alte dello spirito, tutto portato con incantevole e straordinaria naturalezza. “Sento che Dio m’ha dato in te il suo compenso e la sua benedizione: tu sei il sovrabbondante premio all’opera mia. Un premio che va al di sopra dei miei meriti, al di là di ogni mia speranza. Non è amore di tutti i giorni, il nostro, Francesca mia”.
Anche in questo campo non vi sono divisioni, né compartimenti separati tra le riflessioni sulla vita, le decisioni nel campo politico, tra il parlare d’amore e lo scrivere di Dio. Siamo nel 1922, si sentono le prime avvisaglie del movimento fascista. Si preparava il Congresso del P.P.I.: “Un lavoro febbrile improvvisamente mi assorbe in questa vigilia. Di fuori c’è il pubblico che mi attende, ma esso turbina attorno al luogo segreto dell’anima dove sei tu sola. Fa’ uno sforzo tutti i giorni e leggi Papini. Familiarizzati con la figura del Cristo che solleva noi creature al di sopra dell’umana natura … io lo vedo sempre incombere dall’alto innanzi a me per indicarmi la via. E io credo di seguirlo umilmente… Francesca non voglio essere più solo innanzi a Lui… non sono bigotto e forse nemmeno religioso come dovrei essere … vieni, ti voglio con me e che mi segua nella stessa attrazione come verso un abisso di luce …”.
È una professione di fede che pure mantenendolo nella posizione di un uomo politico che pensa al cristianesimo come anima di tutte le cose, non gli ha mai permesso di cadere nell’integralismo intollerante. Questa sua lata ispirazione spirituale gli ha dato la possibilità di mantenere il giusto equilibrio facendo camminare parallele ed autonome le sue azioni nel campo del contingente e la sua spinta verso l’eterno.
Vorrei ricordare ancora una delle lettere scritte a Francesca in occasione della morte di Papa Benedetto XV. De Gasperi è in mezzo alla folla che in Piazza S. Pietro cammina verso l’entrata della Basilica: “In mezzo a quella folla ho pensato a te. Perché? Inconsapevolmente prima, coscientemente poi ebbi chiaro questo pensiero: quando l’amore ha raggiunto il suggello dell’indissolubilità, l’anima nostra tende a legare la creatura amata ad un’idea eterna quasi per renderla incorruttibile… gli uomini che non hanno la stessa fede come potranno misurare la stessa profondità di un amore che si prolunga dopo la morte?”
Accompagnare gli amici, anche quelli che non condividevano la sua fede, negli ultimi giorni della loro vita era un compito che si era prefisso, così come essere vicino al lutto dei loro familiari, sempre nel rispetto delle idee altrui. Scrive ad un amico di altra convinzione politica: “vorrei dirle una parola di amicizia, mi fermo sulla soglia della sua coscienza perché non voglio apparire indiscreto indagando il mistero del suo cuore per trovarvi dei sentimenti che s’accordino con i miei… è forse inconciliabile per questo augurarle che le rinasca in cuore la speranza dei beni eterni?”
Sempre seguendo il filo di quest’intreccio tra politica e spiritualità quasi a formare un unico tessuto, voglio leggervi alcune righe di una lettera che mio padre scrisse ai familiari di un amico appena scomparso, quasi una preghiera: “Ricordati, Signore, che egli fu buono, misericordioso e giusto e che accanto alla sua diletta famiglia, due grandi amori riempirono la sua vita laboriosa: la Tua chiesa e il suo paese”. De Gasperi non ha diviso, ma unito la sacralità di aver servito la Chiesa con l‘impegno di aver servito il Paese, certo che la sua passione del bene pubblico avrebbe seguito questo amico i n cielo da dove, egli scrive: “sentiremo il suo aiuto, il suo consiglio, la sua ispirazione”.
Non si trattava quindi di relegare solo nello spirituale, cioè nel bene delle anime, il compito dei trapassati, ma il lavoro molto al bene pubblico doveva essere ancora motivo di interesse e di intervento anche da quel mondo ignoto che chiamiamo cielo.
Le lettere dalla prigione pubblicati sulla rivista “Illustrazione Vaticana” durante il ventennio fascista sono una fonte inestinguibile di queste due posizioni: l’essere un cristiano e un politico. In uno di questi commenti dalla politica estera fatto, sempre sotto pseudonimo, c’è il nocciolo della questione che ha turbato tante coscienze. “… Nella dottrina e nella pratica della Chiesa i consigli di prudenza si alternano con quelli di un santo ardimento. Ma fino a che punto deve arrivare l’adattamento, fino a quale momento deve durare il silenzio? Ecco il grande quesito pratico che pesa sulle coscienze…”. Di fronte c’erano otto anni di nazismo, le leggi razziali, la guerra.
Quando fu chiamato negli ultimi dieci anni della sua vita a più alte cariche dello stato ed alle grandi responsabilità politiche cui l’Italia doveva dare una risposta, niente cambiò nella linea di vita. Quante volte mi meravigliai come nei discorsi alla Camera ed in quelli delle campagne elettorali la gente che lo ascoltava sopportasse tranquillamente il suo riferimento alle virtù dello spirito ed al nome di Dio.
La sua pietà era semplice e naturale e come ogni sua vittoria nel mondo politico, seppure faticata e grave, non gli lasciava nessun senso di orgoglio, così il suo impegno cristiano era sincero e privo di ostentazione. Ciò gli permise di lavorare assieme a uomini di diversa concezione della vita e di essere da loro rispettato ed anche amato. Il ministro della difesa Pacciardi, capo del partito Repubblicano ha scritto di lui: “… in uomini come lui la distinzione tra umanità e spiritualità era soltanto apparente”.
Un giorno alla Camera, dopo un difficile discorso tenuto alla fine di una di quelle battaglie parlamentari che avevano richiesto molta forza di convinzioni, molta pazienza nel ribattere le opinioni degli avversari, grande foga e profondo impegno, ma infine vinta da De Gasperi, mentre dal banco del governo già tutti se ne erano allontanati ad i seggi nell’aula si svuotavano uno alla volta, egli raccoglieva con calma le sue carte. Le luci lentamente andavano spegnendosi. Un collega lo raggiunse e gli chiese: “Ma dimmi che cosa hai, è il fiuto o la fortuna che ti guida?” Egli non alzò neppure il capo dicendo: “Che vuoi, è il Signore”. E come avesse detto una cosa del tutto normale riprese a raccogliere i fogli sparsi e a metterli nella cartella.
Ogni incontro nel Consiglio dei Ministri, ogni comizio in piazze gremite di folla ebbero sempre una parola di pace, di solidarietà e di concordia tra gli uomini di ogni razza, di ogni pensiero. Anche il suo duro impegno per l’unità europea rientra in questo progetto di unità e di concordia, non solo vedere nell’unità la fine dei conflitti tra europei, non solo la costituzione di una posizione di equilibrio tra le potenze del momento e di quelle del mondo futuro, ma un nuovo senso di condivisione pacifica di ogni risorsa per migliorare il modo di vivere di tutti i popoli partecipanti a questo progetto.
Per lunghi anni operò affinché nelle collaborazioni di governo o di partito non si spegnesse il lume della coscienza morale. Il principio cristiano della carità fu da lui assolto con il continuo donare le proprie giornate agli altri senza mai gettarne via una, senza mai pensare solo a sé stesso. Chi chiese aiuto non lo trovò mai stanco, chi riusciva a fermarlo sulla porta di casa quando rientrava alla sera, veniva sempre ascoltato con la stessa attenzione che egli metteva nelle cose importanti poiché ogni uomo, fosse importante o meno, aveva per lui lo stesso valore.
Mio padre era passato dalla povertà della sua vita di studente, al banchetto nei piatti d’oro dell’imperatore d’Austria; poi di nuovo nell’indigenza, alla violenza politica, all’umiliazione di una condanna, alla solitudine e mortificazione dello spirito. Infine di nuovo sull’onda della notorietà e del potere. Niente di tutto questo aveva mutato il suo animo: né la gloria, né l’abbandono, l’ingratitudine o le sconfitte sul piano politico anche quando aveva puntato ogni sua giornata sulla loro riuscita, seppero soffocare il suo spirito.
Finché un giorno tra le sue montagne egli seppe rassegnare le sue dimissioni tra le mani del Signore: “Vedi, mi disse mentre dal suo letto guardava i raggi del sole giocare tra i rami scuri del bosco, il Signore ti fa lavorare, ti permette di fare progetti, ti dà energia e vita, poi quando credi di essere necessario, indispensabile al tuo lavoro, ti toglie tutto improvvisamente. Ti fa capire che sei soltanto utile, ti dice ora basta puoi andare. E tu non vuoi, vorresti presentarti al di là con il tuo compito ben finito e preciso. La nostra piccola mente umana ha bisogno delle cose finite e non si rassegna a lasciare ad altri l’oggetto della propria passione incompiuto. Adesso ho fatto tutto ciò che era in mio potere, la mia coscienza è in pace”. Così, con un sorriso indefinibile negli occhi e sulle labbra descriveva con estrema semplicità la lotta che il suo spirito incominciava a sostenere con la sua fine.
“Gesù, Gesù”, furono le sue ultime parole … e la sua morte ebbe la luce di una nascita.
Maria Romana De Gasperi
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