Proseguono nella rubrica Arte di Logos le riflessioni di artisti materani sul tema del rapporto tra la Chiesa e l’Arte con la seconda parte dell’intervista al pittore Nicola Filazzola dedicata alle chiese costruite nel recente passato.
Ed ecco la prima domanda:
Prendiamo ad esempio le tante chiese contemporanee presenti nella nostra città di Matera, come in altre città, con interni molto omologati ed anonimi, secondo te, perché nessuno ha mai pensato di chiamare artisti per realizzare delle opere d’arte?
Con questa domanda hai toccato il tema che più mi rattrista, sicuramente il più insopportabile di tutto il nostro ragionamento e non riguarda solo le chiese costruite negli ultimi 50/60 anni nella nostra città; basta affacciarsi appena fuori Matera per trovarne di peggiori. Non si vuole qui ricordare la furia distruttrice con cui i Romani rasero al suolo il tempio di Gerusalemme (ricostruito dopo 500 anni da Erode il Grande), per imitarne l’azione. Queste chiese “omologate, anonime” come dici tu, più simili a granai che a luoghi di raccoglimento, avrebbero bisogno più che di opere artistiche, di essere ripensate. Esempi di architettura religiosa di alta qualità a cui ispirarsi non mancano. Penso alla chiesa di Gio Ponti a Taranto; la chiesa di Ludovico Quaroni per il borgo La Martella a Matera; quella di Michelucci realizzata per l’Autostrada del Sole nei primi anni ’60 presso Firenze; la chiesa del finlandese Alvar Aalto (anni ’70) a Riola, frazione di Grizzana Morandi, nel bolognese; un’opera che sembra specchiarsi nel letto del Reno tanto è vicina al fiume. So di dispiacerti, ma nessun’opera di pregio migliorerebbe lo stato dei nostri manufatti.
Non credi che se nelle nostre chiese contemporanee ci fossero dipinti o sculture di natura religiosa lasciati alla libera interpretazione di voi artisti, i fedeli, e non solo, sarebbero più coinvolti nelle liturgie perché visivamente interessati al messaggio che l’opera esprime, per la bellezza e la profondità che è in grado di trasmettere?
La storia non si ripete. Non dobbiamo pensare di rivivere un’esperienza analoga a quella fatta da Giotto per la Cappella degli Scrovegni, a Padova. Alla tua domanda schietta, voglio rispondere con una provocazione: invece di aggiungere, sarebbe opportuno cominciare a togliere i tanti stucchi che hanno cancellato, dalle nostre chiese romaniche e tardo gotiche, i segni di un’architettura che nella sua essenzialità evidenziava la sapienza e le ardite conquiste delle maestranze del tempo. Il nostro Barocco non è stato “una saetta nell’empìreo della stasi”, per dirla con Sinisgalli, ma abbellimento, operazione di ingentilimento delle antiche vestigia, quasi ci si vergognasse del proprio passato. In questo modo si sono nascoste le volte a capriate, vanto della nostra cultura del fare. Il mio amico Agnissola, l’ingegnere teologo che si occupa di critica d’arte per l’Avvenire, come me innamorato delle opere di Giorgio Morandi, condividerebbe quanto qui espresso. Operazione che permetterebbe di abbandonarsi più strettamente alla vita e alle parole di Gesù che, come afferma Humfhrey Carpenter, “non fu propriamente un maestro di morale, ma nel campo dell’etica la sua forza fu senza pari”. Fuggire dalle immagini. Leonardo Sciascia fa coincidere l’insorgere dello stato di debolezza della Chiesa (non riconoscerlo significa non voler vedere), con la nascita della fotografia. L’immagine aveva senso quando ne giravano poche, ma ora che trasbordano da tutte le parti, starne lontano forse è la scelta migliore.
Accetteresti, se ti fosse data la possibilità, di poter mettere la tua arte, la tua ispirazione, per la realizzazione di un’opera di natura religiosa lasciata alla tua interpretazione?
Ora sei tu il provocatore. C’è stato un tempo in cui aspiravo vedere una mia opera collocata nella Sala Consiliare di un Comune. Erano luoghi questi, negli anni ‘70-’80, che durante lo svolgimento del Consiglio si riempivano di gente. Io stesso ho fatto parte del Consiglio Comunale del mio paese d’origine. Ricordo la partecipazione numerosa: operai, tecnici, artigiani, uomini della scuola, donne. Mettere un segno, far veicolare un pensiero, un sentimento sulle fredde pareti di quelle stanze, credo possa contribuire ad arricchire la vita civile della comunità. Oggi, anche quei luoghi, non li frequenta più nessuno: si è spogliata la politica di ogni idealità. Appendere a un chiodo un proprio quadro in spazi che sono diventati spettri di se stessi, significherebbe farlo morire. Mi chiedi se fossi disponibile a mettere mano a un’opera di ispirazione religiosa. Più volte, in passato, ho avuto modo di misurarmi con questi temi. Le opere non sono finite nelle chiese, ma nelle collezioni private. Le ho fatte con lo stesso spirito con cui, lungo tutti questi anni, ho dipinto un abbraccio, un atto di rivolta, un episodio di violenza, un grumo di case. Ciò che mi ha sempre guidato nella ricerca non è stata l’ossessione di vedere risolto tutto sul piano strettamente formale, ma l’aver pensato la pittura come atto morale, ricerca di verità. Tornando alla domanda, credo che in chiesa si debba andare, non per essere rapiti dal quadro, dalla scultura, dalla fotografia, ma perché attratti dalla personalità specchiata del presbitero e dall’opera che egli svolge al servizio della comunità che gli è stata affidata. Il popolo che ogni mercoledì varca la soglia d’ingresso della Sala delle Udienze Paolo VI non si reca in Vaticano per vedere la scultura di Pericle Fazzini (l’opera che fa da fondale all’ampio spazio progettato da Pier Luigi Nervi). Quel giorno ci si muove da ogni angolo del Paese, e non solo, spinti dal desiderio di incontrare Papa Francesco. Il tema, insomma, è assai più complesso. Aver cominciato a parlarne è già molto e tutti, in qualche modo, devono riconoscerti il merito di aver sollevato questioni che non sono solo di ordine estetico, ma che riguardano principalmente l’agire della Chiesa nel mondo.
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