La Chiesa e l’Arte – Nicola Filazzola – parte 1^

Logos, nella sua rubrica Arte, prosegue nel tema del rapporto tra la Chiesa e l’Arte, partendo dall’Omelia della “Messa Degli Artisti”, celebrata nella Cappella Sistina da Paolo VI nella Solennità dell’Ascensione giovedì 7 maggio 1964.

Un anno dopo, l’8 dicembre 1965, erano i Padri del Concilio Vaticano II a lanciare questo messaggio agli artisti: “Il mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione”.

L’argomento fu ripreso successivamente, da Giovanni Paolo II (1999) e da Benedetto XVI (2009). L’Omelia di Paolo VI rappresenta il testo base del confronto e del dialogo con gli artisti. Il percorso di Logos continua con preziosi e personali contributi di apprezzati e stimati artisti del nostro territorio.

La prima intervista è con Nicola Filazzola, a cui pongo la prima domanda:

Parla di te ai lettori di Logos

Questo scambio di idee avviene quando forti sono i venti di guerra che si alzano dai confini orientali dell’Europa. La domanda che mi pongo è: perché il comunismo, che doveva liberare l’uomo, abbia prodotto prima Stalin e poi Putin. La risposta sta dentro le fitte pagine di Dostoievski. Leggendo e rileggendolo si comprende perché, in quel Paese, accadono certe cose e perché, le stesse, nel volgere di breve tempo, si tramutano in atti dove il tragico e il grottesco camminano, inseparabili, l’uno accanto all’altro. Ci dice di più, in merito a ciò, Gogol’ con la sua lunga lista di personaggi ossessionati dal potere e dal denaro. Nessun capovolgimento sociale basta a correggere la loro visione. Emergeranno sempre dal sottosuolo i “Taras Bul’ba”e i “Cicikov”. “Parlare di sé” è ciò che meno mi piace, anche perché non saprei proprio a chi potrebbero interessare le mie irruzioni nell’orto che vide, mio nonno, curvo, a strappare dalla terra sedani e cavolfiori; mi limiterò, ma solo per non deludere la tua curiosità, a dire poche cose. Sono arrivato a Matera, dal mio paese, l’inverno del 1964. Nelle strade c’era ancora un po’ di neve. Ricordo la luce tersa e fresca di quei giorni. Via Gramsci mi colpì per il verde davanti le case. I Sassi li conoscerò dopo, mi interessava il nuovo; i sottani della mia Betlemme non erano diversi dai tuguri del Caveoso. I primi libri: Cristo si è fermato a Eboli, me lo portò una sera mio cugino Tonino Lisanti, a Matera, per ragioni di studio, già da alcuni anni, e Delitto e Castigo, un’edizione economica comprata all’edicola di chi diventerà uno dei miei amici di Matera, Pietro Cifarelli, il creatore della prima libreria della città. Sarà proprio la libreria, insieme alla Biblioteca Provinciale, diretta allora dall’amatissimo Raffaele Lamacchia, uno dei miei riferimenti quotidiani. Quello stesso anno Pasolini gira nei Sassi il Vangelo secondo Matteo. La sua presenza a Matera mi fece capire di trovarmi in una città non comune. Risale a qualche anno dopo l’incontro con Luigi Guerricchio e la lunga frequentazione del suo studio. Furono questi gli anni delle grandi letture. Le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci mi portarono a iscrivermi al Partito Comunista. Quanto tutto ciò, apparentemente frutto del caso, abbia agito sulla mia coscienza non saprei dirlo. La pittura. Istituto d’Arte e Accademia di Belle Arti di Bari, non completati. Prima mostra: Roma 1973. Dello stesso anno è la mostra di Grosseto. L’ultima, dopo aver esposto nelle maggiori gallerie italiane, l’esposizione nelle sale di Castel dell’Ovo a Napoli. Non ho mai fatto l’americano, nel senso che ho sempre guardato alla pittura italiana ed europea. Potevo diventare un bravo astrattista, non ho voluto girare le spalle alla figura, non per comodità, ma perché la ritengo necessaria. La pittura non è sorgente di astrazioni, ma rappresentazione di cose reali.

Giornali e Calanchi

Quali riflessioni ti ha suscitato l’Omelia di Paolo VI, in cui affronta il rapporto tra la Chiesa, l’arte e gli artisti?

Conosco il documento di Paolo VI, mi fu segnalato anni fa da quel prete straordinario che è Don Basilio Gavazzeni. Ricordo la lunga discussione che ne scaturì nel commentare le questioni sollevate dal Pontefice; così come mi è capitato, in più occasioni, di tornare sulle parole del Papa con il mio fraterno amico, il benedettino don Donato Giordano. L’amarezza di Papa Montini – per il distacco che si era venuto a creare tra la Chiesa e gli artisti, la sua supplica a ritornare nuovamente amici – me lo rendevano vicino, più di quanto si possa immaginare. Ho sempre avuto per questo Papa una profonda ammirazione. Uomo intelligente, colto, desideroso del dialogo, Papa Montini è stata una delle espressioni più alte del pensiero italiano della sua epoca, sul cui pontificato andrebbe aperta una lunga e più attenta riflessione. Ciò che mi sembra di cogliere, rileggendo a distanza di quasi sessanta anni l’omelia che egli tenne nella Cappella Sistina, è lo spirito del nuovo rapporto con cui il capo della Chiesa Cattolica intende ristabilire con loro. Per meglio comprendere quanto qui ricordato, bisogna partire da lontano, dal Concilio di Trento (1545-1563) che si chiuse elevando le immagini a culto. Una controffensiva della Chiesa di Roma alla Riforma luterana che metteva al bando ogni immagine sacra. L’invito di Papa Montini agli artisti, quindi, non va interpretato come un ritorno al passato. Esso è tanto più importante in quanto segna la svolta che il Papa vuole dare con una nuova intesa, che cerca quasi disperatamente, con il mondo dell’arte. “Noi abbiamo bisogno di voi”, ripete più volte nel suo discorso.  “Noi dobbiamo lasciare alle vostre voci il canto libero e potente, di cui siete capaci”. Basta! – egli fa intendere – con la rappresentazione pietosa e mistificante del sacro, “ai surrogati, all’opera d’arte di pochi pregi”. Sono le preoccupazioni della Chiesa di ieri. Da allora molto è cambiato. I problemi della Chiesa di questo inizio secolo, non si può non prenderne atto, sono assai lontani da quelli avvertiti da Paolo VI. Il primo e forse il più urgente, è quello di riconciliarsi con se stessa; a seguire, ma non per questo meno importanti, la questione del celibato ecclesiastico e il ruolo della donna nella Chiesa. Temi non più procrastinabili, eluderli allargherebbe ulteriormente il fossato che si è venuto a creare tra la Chiesa e il suo stesso popolo. Ma qui usciamo dal campo che ci siamo proposti di trattare.

Nel passato papi, re e principi si rivolgevano ad artisti famosi per dipingere affreschi o realizzare sculture nelle chiese, nei palazzi e in cappelle private. Perché in riferimento alle chiese della società contemporanea, questo non è più accaduto?

La domanda rinvia inevitabilmente al ruolo svolto dal potere, sia esso laico che religioso. Conferma, implicitamente, la risposta che il critico d’arte Dario Micacchi diede a chi gli chiedeva dove va l’arte: “L’arte va dove stanno i soldi”. Evidentemente le risorse della Chiesa, da un certo periodo in poi, non sono state più le stesse. Lo fa intendere anche il Pontefice. Attenzione, però, a non commettere l’errore di pensare che abbia fatto tutto la Chiesa. C’è stato nel passato, da parte della nobiltà, la corsa a costruire nelle chiese, in cambio di elargizioni e lasciti, la cosiddetta “cappella signorile”. Superfluo parlare della competizione che si scatena tra le famiglie più in vista. La qualità della realizzazione, la sua sontuosità rafforzavano il prestigio e la fama della famiglia; si voleva ostentare il potere e l’influenza che essa esercitava negli ambienti decisionali. La famiglia Contarelli, per le opere d’arte da inserire nella propria cappella in San Luigi dei Francesi a Roma, si rivolse a Caravaggio. Se possiamo godere della spettacolarità di queste opere, lo si deve al sistema di relazioni che intercorreva tra la Chiesa e l’aristocrazia. Non andò a buon fine (un esempio del non realizzato), invece, la richiesta dell’Associazione dei Palafrenieri (gli addetti alle scuderie del Vaticano) di avere nella Basilica di San Pietro un proprio altare. Richiesta, un primo tempo accordata da Papa Paolo V, poi ritrattata. Per l’opera da collocare sull’altare, l’Associazione aveva incaricato anche in questo caso Caravaggio il quale, messosi subito al lavoro, la completò in brevissimo tempo. La tela finì con l’essere acquistata dal Cardinale Borghese, grande collezionista e nipote del Papa; si è sempre sospettato che sia stato proprio Scipione Borghese a convincere lo zio a rimangiarsi la promessa fatta ai Confalonieri, pur di entrare in possesso della Madonna del Caravaggio. La società borghese, che si rafforza e si estende lungo tutto l’Ottocento e il Novecento, non sente, a differenza della nobiltà seicentesca e settecentesca, di essere presente nelle chiese. Cambiano le ambizioni, ma anche i rituali e con essi cambia anche il destino stesso della Chiesa, oggi assai minacciato dalla spregiudicatezza delle moderne classi dominanti.

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Domenico Infante

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