Papa Francesco lo aveva anticipato quando i vaccini erano solo una speranza per tutta l’umanità e nei laboratori dei Paesi più ricchi si sperimentavano le prime soluzioni contro il nuovo virus. Si era in pieno agosto 2020 e l’autorizzazione di emergenza al primo vaccino anti-covid negli Stati Uniti era ancora lontana. Ammoniva il Papa nel corso di un’udienza, sabato 19 settembre 2020: «Sarebbe triste se nel fornire il vaccino si desse la priorità ai più ricchi, o se questo vaccino diventasse proprietà di questa o quella Nazione, e non fosse più per tutti. Dovrà essere universale, per tutti».
È passato più di un anno da quelle parole e i numeri parlano chiaro. Non solo i ricchi hanno avuto la priorità; addirittura discutono se davvero valga la pena vaccinarsi e con quale vaccino, mentre i poveri stanno ancora ad aspettare. Oggi infatti le nazioni più ricche stanno programmando le terze dosi del vaccino per una ampia fascia delle loro popolazioni e, nel contempo, si stanno avvitando in discussioni talvolta rabbiose con chi non si vuole vaccinare (discussioni che potrebbero suonare surreali a chi il vaccino non ce l’ha); le nazioni più povere del mondo sono invece riuscite a vaccinare finora solo pochi dei loro abitanti. Qualche esempio aiuta a chiarire la scala del problema: in base ai dati del Global Change Data Lab, negli Stati Uniti, dove alcuni vaccini sono stati sviluppati, sono stati vaccinati con due dosi 194 milioni di abitanti su una popolazione di più di 300 milioni.
In Africa, una nazione popolosa come la Nigeria, con più di 200 milioni di abitanti e un reddito medio pari a circa un trentesimo di quello degli Stati Uniti, ha vaccinato con due dosi solo 3,46 milioni di abitanti. In Europa, dove si producono alcuni vaccini, la Francia ha vaccinato quasi 47 milioni di abitanti su una popolazione di quasi 70 milioni, mentre un paese disperato come Haiti, con un reddito medio 32 volte inferiore a quello francese e una popolazione di 11 milioni di abitanti, è riuscita a vaccinarne solo 67 mila.
L’appello del Papa ai grandi laboratori per la liberalizzazione dei vaccini si colloca pienamente nell’alveo di quel principio di solidarietà che tante volte è stato richiamato dal magistero della Chiesa. La solidarietà mette in risalto la socialità delle persone umane e ne ricorda l’eguaglianza in termini di dignità e di diritti. Non a caso Papa Francesco richiamava, nel corso di un’udienza nell’agosto 2020, la necessità di trovare, accanto all’antidoto per il piccolo virus che causa il covid-19, l’antidoto per un grande virus, «quello dell’ingiustizia sociale, della disuguaglianza di opportunità, della emarginazione e della mancanza di protezione dei più deboli».
Queste ingiustizie possono essere lette lungo una pluralità di dimensioni. Se ci limitiamo a vedere i vaccini anti-covid come antidoti per proteggere la salute delle persone, non possiamo non vedere come, nonostante indubbi progressi, esistano ancora divari importanti in termini di opportunità fra Paesi ricchi e Paesi poveri che vanno ben oltre quello che ci dicono i numeri sulle vaccinazioni contro il covid-19. Già Papa Paolo vi ricordava, nella Populorum progressio, che la salute è parte delle aspirazioni degli uomini di oggi, assieme all’affrancamento dalla miseria, ad una maggiore istruzione, ad una occupazione stabile.
Le diseguaglianze di opportunità possono essere lette sia in termini di risorse, sia in termini di esiti di salute. Sul fronte delle risorse, per restare agli esempi precedenti e pescando ancora dai dati del Global Change Data Lab, in un Paese come gli Stati Uniti si spendono più di 9 mila dollari a testa per le cure; in Nigeria si superano i 200 dollari. In Francia, sono più di 4.500 dollari a testa; ad Haiti sono appena 130.
Nei Paesi ricchi, si discute di cure rivoluzionarie che possono provare a ridare la vista ai ciechi ad un prezzo per l’intera società di quasi un milione di euro per paziente o che possono consentire qualche mese di vita in più ai malati di cancro. Contemporaneamente, nei Paesi poveri, i bambini rischiano di morire per un malanno banale come la diarrea, per combattere la quale basterebbe un farmaco che costa pochi dollari. Non è un caso che, nonostante gli indubbi progressi a livello globale, le differenze nella mortalità infantile siano ancora enormi tra i diversi Paesi nel mondo: in Africa muoiono ancora 9 bambini ogni 100 al di sotto dei cinque anni in media; in Nigeria si arriva quasi a 12 ogni 100. Negli Stati Uniti sono solo 0,65 ogni 100, un dato vicino alla media Ocse; ma negli Stati Uniti, la mortalità infantile era il 3 per cento già nel 1960.
L’aspirazione ad una buona salute, ancora oggi negata per una parte dell’umanità, è essenziale per uno sviluppo integrale dell’uomo; ed essenziale diventa quindi capire quali passi concreti si possano fare per far sì che, da desiderio illusorio, l’aspirazione ad una buona salute si trasformi in realtà. Una prima possibilità è il rafforzamento della governance globale, necessaria per problemi che hanno una scala globale, come la pandemia o i cambiamenti climatici. Assicurare una vita sana e promuovere il benessere delle persone a tutte le età è già uno dei 17 obiettivi fissati dalle Nazioni Unite per uno sviluppo sostenibile; ma la pandemia ha frenato i progressi su questo fronte.
Sulla specifica questione del vaccino, la governance globale si è sostanziata nell’iniziativa Covax, una iniziativa internazionale guidata dall’Organizzazione mondiale della sanità proprio per garantire un accesso equo ai vaccini anti-covid a tutti i Paesi del mondo. Per esempio, il “Team Europa” (formato da Unione europea, Stati membri, e istituzioni finanziarie quali la Banca europea degli investimenti e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo) ha messo a disposizione, almeno nei piani iniziali, risorse per fornire quasi 2 miliardi di dosi di vaccino per 92 Paesi a reddito medio-basso. Ma, visti i numeri precedenti sui tassi di vaccinazione nei Paesi poveri, il programma sta andando a rilento. Serve fare certamente di più su questo fronte, agendo anche a livello locale nei Paesi di destinazione, correggendo alcuni errori di comunicazione che sono stati fatti anche in Europa nell’impiego di alcuni vaccini a vettore adeno-virale. Tali vaccini appaiono oggi come una seconda scelta, anche nei Paesi più poveri.
Una seconda possibilità è spingere sull’uso di licenze obbligatorie, che già oggi sono previste nell’ambito delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio, per poter produrre direttamente nei Paesi più poveri i vaccini. Con una licenza obbligatoria, uno Stato obbliga il possessore di un brevetto a concederne l’uso ad altri soggetti. Peraltro, questa possibilità è già stata utilizzata per farmaci contro malattie molto diffuse nei paesi in via di sviluppo, come l’Aids o l’epatite c . Nel caso dei vaccini contro il covid-19, si tratta di una soluzione che richiede tempo e tecnologie che potrebbero non essere così facilmente disponibili. Il tempo è quello necessario a costruire impianti adeguati di produzione, un tema che ha caratterizzato le difficoltà di avvio della campagna vaccinale anche in Europa.
Una terza possibilità è quella di sviluppare le innovazioni con partenariati pubblico-privati, con il pubblico che da un lato si assume i rischi dell’innovazione nello sviluppo di nuovi principi attivi, finanziando la ricerca di università ed enti di ricerca pubblici e privati, e dall’altro sostiene i costi delle sperimentazioni cliniche. Nel caso dei vaccini contro il covid-19 un vero partenariato non è mai stato formalizzato, anche se sarebbe bene cominciare a riconoscere che i finanziamenti pubblici sono stati enormi. Le stime per i soli Stati Uniti parlano di circa 20 miliardi di dollari.
Quello che ormai appare una certezza è che bisogna accelerare, perché non riusciremo a salvarci da soli: la nuova variante Omicron è lì a testimoniarlo.
Di Gilberto Turati, Professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dal sito dell’Osservatore Romano del 30 dicembre 2021
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