Cos’è la Cop26 di Glasgow. Clima, emissioni, Paesi inquinanti

Gli obiettivi, i rischi, le difficoltà negoziali della 26a Conferenza Onu sui cambiamenti climatici.

Cos’è la Cop26?

La 26esima Conferenza Onu sul cambiamento climatico (Cop26), organizzata dal governo britannico in partnership con l’Italia, si terrà a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre, sotto la presidente del Regno Unito.

Quali obiettivi si pone?

La Cop26 ha l’obiettivo di convincere i 197 partecipanti ad assumere impegni stringenti per mantenere l’innalzamento della temperatura entro la soglia degli 1,5 gradi. «Quanto fatto a Parigi nel 2015 è stato brillante ma si trattava di un accordo quadro e i dettagli sono stati lasciati al futuro» spiega il presidente del summit, Alok Sharma, intervistato dal Guardian. «Ora è come essere alla fine del foglio d’esame: sono rimaste le domande più complicate, manca mezz’ora alla fine e ti chiedi come farai a rispondere».

Perché rischia di fallire?

A dare l’allarme, a metà ottobre, era stato John Kerry, inviato speciale Usa per il clima. «Il vertice di Glasgow può fallire», aveva avvertito. Il rischio concreto di flop è stato confermato dallo stesso presidente Sharma che, sul Guardian, ha definito «davvero difficile» raggiungere l’obiettivo della Conferenza. L’interrogativo è più che legittimo, anche alla luce degli ultimi sviluppi. Il Covid ha ricominciato a sferzare con forza la Gran Bretagna. Inoltre si è assistito a due defezioni illustri. Il presidente russo Vladimir Putin ha dato forfait ufficiale anche se si è riservato la possibilità di un video-messaggio. Poi è stato il turno del cinese Xi Jinping. Certo, entrambi i Paesi hanno confermato i propri sforzi per il buon esito della trattativa, a cui invieranno delegati di alto livello. Di fatto, però, il Dragone non ha ancora presentato il piano di tagli da realizzarsi entro il 2030, come previsto dall’articolo 4 dell’intesa di Parigi del 2015.

Quali sono i Paesi che producono più CO2?

Pechino è il “grande inquinatore”, con un quarto delle emissioni globali, principale causa del riscaldamento globale. Mosca è la terza in classifica, dopo l’India.

Cosa stabiliva l’intesa di Parigi?

Uno nodo centrale è quello dei “contributi determinati a livello nazionale” o Ndc: sono i propositi di riduzione della CO2 che ogni Stato deve aggiornare ogni cinque anni per raggiungere la neutralità carbonica – cioè l’azzeramento delle emissioni nette – nel 2050. Gli impegni presi a Parigi – che, se rispettati, avrebbero fatto aumentare la temperatura di 3,2 gradi, quasi il doppio della soglia di equilibrio – dovevano essere rivisti al rialzo entro il 2020.

Quanti stati hanno mantenuto l’impegno?

Quarantasette nazioni – circa un quarto dei sottoscrittori dell’intesa di Parigi – non hanno ancora rivisto al rialzo i propri propositi di riduzione della CO2. E gli altri 145 hanno previsto «tagli modesti. Troppo poco per raggiungere la meta di +1,5 gradi», spiega Taryn Fransen, ricercatore del World resources institute di Londra. Secondo l’esperto, tuttavia, alcuni passi avanti importanti ci sono. Oltre la metà dei firmatari ha aumentato gli sforzi. In base alle promesse attuali, incluso l’azzeramento netto delle emissioni alla metà del secolo da parte di 65 nazioni, la temperatura raggiungerebbe i 2,1 gradi, quasi un punto in meno rispetto a sei anni fa. Qualche altro Paese – c’è grande attesa soprattutto per Cina e India – potrebbe sommarsi ai “virtuosi” come dimostra la svolta ventilata dall’Arabia Saudita. «È probabile, tuttavia, che la Cop26 si concluda senza un piano complessivo di riduzione delle emissioni, per stare entro gli 1,5 gradi. Si potrebbe prevedere che i ritardatari si adeguino entro il 2023», ha sottolineato Fransen.

Quali sono le altre difficoltà dei negoziati?

Oltre che sui tagli, Cop26 rischia di incagliarsi sui cosiddetti “finanziamenti climatici” e sulla regolazione del mercato del carbonio. I finanziamenti climatici sono il fondo da cento miliardi di dollari l’anno per aiutare gli Stati più poveri a riconvertire i sistemi produttivi ed energetici in chiave ecologica. Alla quota del 2020 mancano ancora 20 miliardi di dollari e già si profila la necessità di raccogliere 500 miliardi entro il 2024. A questo si somma l’urgenza di prevedere ulteriori fondi per le nazioni più colpite dal cambiamento climatico. C’è, infine, la questione della regolazione del mercato del carbonio. Il meccanismo di scambi, pattuito a Parigi, consente ai Paesi di compensare la CO2 emessa con progetti di assorbimento – dalla riforestazione alle rinnovabili – in altri Stati, in genere poveri. Affinché il sistema non si trasformi in una licenza di inquinare per grandi potenze e multinazionali, è necessario sottoporlo a verifiche oggettive e trasparenti. Su questo tutti concordano. La formula non è stata ancora trovata.

Di Lucia Capuzzi da Avvenire di domenica 24 ottobre 2021

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