Siamo stati travolti, come ci ha suggerito Papa Francesco, da una tempesta inaspettata e furiosa che al fragore della virilità dell’uomo ha sostituito il silenzio assordante della sua fragilità.
La fragilità è una condizione della vita con cui difficilmente decidiamo di confrontarci. Pochi riescono a viverla come una risorsa e dai più, invece, è ritenuta lesiva e dannosa. Non è un caso che, normalmente, è una qualità della vita che tendiamo a nascondere.
E’ fragile, nell’immaginario comune, chi manifesta debolezza, caducità, una certa inconsistenza. E questo nostro quotidiano non sembra avere tempo da perdere con ciò che è gracile, insicuro o addirittura non autosufficiente. Al frangibile (fragile) si preferisce, senza se e senza ma, l’infrangibile. E, purtroppo, è sempre stato così! Basti pensare a quell’antichità, mai veramente troppo lontana da noi, in cui chi non era adatto alla “guerra” era, nel migliore dei casi, socialmente emarginato se non addirittura sacrificato perchè “inutile”.
Tutto ciò ha procurato, nel tempo, quello stereotipo di genere per effetto del quale l’uomo, l’uomo vero, è quello forte, sicuro di sé, senza incertezze, i cui occhi non conoscono il rossore dovuto alle lacrime e la cui voce non è mai spezzata dal lamento del pianto.
Eppure tutti, in un modo o in un altro, abbiamo dovuto spesso fare i conti con la nostra fragilità. Del resto chi potrebbe immaginare di viverne senza? Cosa sarebbe della nostra vita senza quel necessario confronto con il dubbio, con la la debolezza, con il discutibile, con l’indefinito.
E’ forse opportuno rileggere, allora, in chiave positiva il concetto di fragilità: solo chi è fragile si riscopre bisognoso dell’altro; solo chi è fragile è in cerca di consigli; solo chi è fragile impara ad esercitare la fede o anche solo la fiducia.
D’altro canto l’esperienza della fede cristiana ci insegna che è proprio quando mi riconosco “debole che sono forte”.
In quest’ultimo terribile anno, tutti abbiamo dovuto prendere atto della fragilità umana. E’ bastato un virus a mettere in ginocchio il mondo intero. E’ bastato ciò che alcuni, all’inizio di questa maledetta pandemia, definivano poco più di un raffreddore a farci realizzare che al mondo non esiste l’onnipotenza. Ci siamo ritrovati tutti a dover constatare l’addensarsi di quelle fitte tenebre nelle nostre città; fitte tenebre di fragilità e paura che lentamente si sono impadronite non solo delle nostre vie ma anche delle nostre vite. Siamo stati travolti, come ci ha suggerito Papa Francesco, da una tempesta inaspettata e furiosa che al fragore della virilità dell’uomo ha sostituito il silenzio assordante della sua fragilità.
Forse per questo abbiamo ritrovato il piacere di riascoltare, con maggiore attenzione, i racconti dei nostri padri o addirittura dei nostri nonni, quei racconti in cui ci presentavano il vissuto di quei tempi incerti, di grande povertà e fragilità – appunto – in cui le relazioni umane erano cibo e medicina con cui affrontare guerre, pestilenze o carestie.
Questa dilagante pandemia ci fornisce l’occasione di rileggere ogni nostra legittima attesa o aspettativa per il futuro alla luce della nostra fragilità, che non va nè calpestata o sminuita nè tantomeno nascosta.
La fragilità può e deve essere quel luogo non formale dell’incontro, lo spazio non geometrico del dialogo, quella zona (non colorata di arancione o rosso) della relazione umana e della comprensione reciproca.
Riconoscere la nostra fragilità significa riconoscere la nostra autentica umanità. Accogliere la nostra fragilità significa collocare la qualità del ritmo salutare della nostra esistenza umana nell’ambito di quei rapporti che riusciamo a strutturare o di quelle condivisioni che riusciamo a realizzare. Riconciliarsi, e questo è il vero punto, con la nostra fragilità significa riconoscere che nessun dei nostri tratti distintivi di comportamento è, in fin dei conti, davvero immodificabile. Sono tante le sfide che ci lancia questa pandemia ma certamente una delle più importanti è quella di pacificarci con le nostre ferite, non solo per farle diventare feritoie di speranza – come si sente spesso dire adesso – ma perchè sono il segno concreto della nostra fragilità; quel segno capace di svelare l’andamento del nostro vivere. Ciò che ci realizza, non ci ferisce…mai! Ciò che ci realizza ci rende felici…sempre! E’ decisamente valido, allora, l’esempio dell’ostrica. Quell’ostrica che pur di non rigettare il granellino di sabbia che è penetrato al suo interno, ferendola, produce una sostanza liscia (la madreperla), che avvolgendo il granellino di sabbia lo rende sferico e senza punte. L’ostrica riconciliandosi con il suo dolore rende un fastidioso granellino di sabbia una perla preziosa. Chissà che da questa pandemia non si possa trarre anche qualcosa di positivo: aver ritrovato nel cuore delle nostre vite la perla preziosa della nostra fragilità.
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