Aveva trentatré anni quando si è consegnato

Era poco più di un ragazzo quel Gesù condannato alla morte di croce. Aveva soltanto trentatré anni. Poteva essere uno dei nostri ragazzi; come uno dei nostri figli. Uno di quei giovani cui non si può non augurare che una lunga vita.

C’è una storiella che raccontano gli ebrei, nella quale si parla di Gesù come “uno dei nostri ragazzi”. È una bella storiella yiddish, la lingua dimenticata degli ebrei europei e che era molto diffusa prima dell’Olocausto; una lingua particolare, per la carica emotiva che riesce a esprimere.

Un po’ di questa sensibilità yiddish possiamo coglierla appunto nell’espressione “uno dei nostri ragazzi” riferita a Cristo e con la quale gli ebrei vogliono sottolineare il loro legame con lui. Era poco più di un ragazzo quel Gesù condannato alla morte di croce. Aveva soltanto trentatré anni. Poteva essere uno dei nostri ragazzi; come uno dei nostri figli. Uno di quei giovani cui non si può non augurare che una lunga vita.

Invece lo vediamo lì, appeso al legno della croce. 

Aveva voluto consegnarsi ai suoi carnefici perché lui che era Dio vedeva in questo un passaggio obbligato per sconfiggere per sempre quello che gli uomini temono più di ogni altra cosa: la morte.

La sua era una divinità che non voleva sottrarsi a quella natura umana che egli aveva voluto assumere. E noi non lo possiamo immaginare se non così, se non come questo Dio ha voluto presentarsi: come uno dei nostri ragazzi.

Aveva soltanto trentatré anni e aveva l’aspetto, la giovinezza di uno dei nostri figli. Nulla sarebbe cambiato se avesse ultimato la sua vita come è giusto che la sogni un giovane uomo. Avrebbe salvato lo stesso, avrebbe redento il mondo lo stesso. Invece ha voluto consegnare la sua giovinezza ai soldati per l’esecuzione della sua condanna a morte.

Perché avrebbe voluto questo? Lui era Dio. Ma un Dio che aveva voluto essere uomo e che sapeva di doverlo essere fino in fondo. Fino alla morte.

Capita che un padre, che una madre, siano disposti a dare la vita per salvare un proprio figlio. Ma che un ragazzo, che un figlio dia la vita per salvare chi lo ha generato, è una cosa dell’altro mondo.

Quanti avranno cercato di evitare questo crudele destino che lo aspettava, quanti in quei momenti avranno cercato di proteggere Gesù! Ma niente di tutto questo lo ha fatto desistere dal suo slancio ideale.

Sta scritto: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto». E cosa possiamo vedere noi, guardando in faccia quell’uomo che, così giovane, ha fatto questa pazzia, si è fatto trafiggere per noi? Cosa possiamo vedere? Quello che vediamo è ciò che vedeva l’Addolorata, Maria. Vediamo un figlio nostro che sotto i nostri occhi consegna la sua anima.

Come lo ha visto il grande Michelangelo nella Pietà. Un giovane corpo esanime abbandonato, come un bambino, in braccio alla sua mamma. Cristo muore e, morendo, si è consegnato a noi uomini; come un bambino innocente.

Aveva detto: «se non diventerete bambini, non entrerete». Aveva messo questa condizione, questa regola, per entrare nel suo Regno. Nella Pietà possiamo vedere come il genio di Michelangelo questo lo ha colto molto bene. Possiamo vedere Cristo stesso che, nel tornare alla casa del Padre, si fa bambino. Non c’è altro da fare, morendo. 

Parlando della spiritualità di santa Teresa di Gesù Bambino, padre Antonio Sicari domanda: «Che cosa dice Teresa? Dice che quando Gesù dice di diventare bambini è di se stesso che parla. Dice di questa meraviglia di Gesù che sulla Terra è il figlio di Dio. Però non come noi che siamo figli e non vediamo l’ora di diventare grandi e di dire a papà e mamma: “non ho più bisogno di te, sono cresciuto, sono grande anch’io”. Non così. […] Gesù è stato sempre Figlio davanti al Padre nel senso più bello della parola. Sempre bambino. Sempre col suo sguardo e il cuore tesi verso Dio suo padre. Questa è l’infanzia di Gesù».

Diceva di essere “il Figlio dell’Uomo”. Si pensa a Dio come venuto da molto lontano, dai confini dell’universo, invece è venuto fuori dalle nostre stesse viscere, Figlio dell’Uomo. Come uno dei nostri. “Uno dei nostri ragazzi”, come ci ricordano i cari fratelli ebrei.

Talvolta rimaniamo sconvolti davanti alle sofferenze, alle morti in tenera età, alla morte innocente. «Non ho trovato in lui nessuna colpa» disse Pilato; «e neanche Erode», aggiunse. Disse bene Pilato. Era innocente Gesù, della stessa innocenza dei bambini. E, morendo come un bambino innocente, ha cercato nella fredda e ingiusta morte che ha subìto il calore del nostro tenero abbraccio.

Sotto il peso del corpo umano di un Dio che è spirato, non ritiriamo le nostre braccia di padri e di madri. Ma aspettiamo così, sotto questo dolce e insostenibile peso, che tutto si compia. Come lui, con i suoi trentatré anni, ha aspettato ancora tre giorni.

Con quale giovanile ideale, con quale ardore nel cuore, con quale grande speranza, Gesù si è consegnato alla morte!

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Paolo Tritto

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