Guareschi e i giovani d’oggi (Terza parte)

Ripercorriamo la tormentata vicenda degli ultimi racconti di don Camillo e Peppone. E l'ancòra più tormentata storia della loro trasposizione cinematografica. Ma soprattutto raccontiamo del burrascoso rapporto di Guareschi con il mondo dei giovani che, comunque, egli amava come se stesso.

(Puntata precedente)

Ivan Santacroce
Don Camillo e Peppone

«Ne ho le tasche piene dei giovani» brontolava Guareschi. Lui era fatto così. Brontolava perché era un timido che non voleva far trasparire i suoi reali sentimenti e nascondeva quella tenerezza per una giovinezza che, piaccia o non piaccia, serve a scuotere la vita. Non voleva che si scoprisse che egli in quei giovani vedeva se stesso; che amava la “ghenga pestifera” di quei ragazzi come se stesso.

Perché tutto quello che Guareschi aveva scritto non era stato scritto tanto per scrivere. Era stato scritto per guidare i giovani – il “postero mio diletto” – sulla strada buona della vita, evitando le sofferenze cui era andata incontro la sua sfortunata generazione.

Si potrebbe dire che sarebbe stato giusto raccogliere tutto quello che Guareschi ha scritto in un’unica opera da intitolare “Guareschi e i giovani d’oggi”, come voleva il vecchio Rizzoli. Si potrebbe dire che tutte quelle storie che Guareschi ha creato le ha scritte come una lunga lettera ai posteri. È un peccato che, per tutti gli incidenti che abbiamo visto, questa lunga lettera non abbia poi raggiunto i destinatari.

A quel don Camillo che arriva sulle barricate del Sessantotto non piace la moda dei capelli lunghi che i giovani, i capelloni, portavano in quegli anni. Sembra di capire che questo non piacesse nemmeno a Guareschi. E il prete se ne lamenta col Crocifisso. Il quale però gli fa notare che anche lui ha i capelli lunghi. Guareschi non tollera la contestazione dei giovani ma nello stesso tempo si rende conto che proprio il suo Cristo è stato il primo contestatore. Un contestatore al quale don Camillo osa contestargli di essere diventato “un intellettuale di sinistra”.

Guareschi era fatto così. Brontolava, ma la sua coscienza era piena di ammirazione per tutto ciò che lo riportava alla giovinezza. Quella giovinezza che egli sentiva di avere ancora addosso.

«Quand’ero ragazzo» scriveva Giovannino Guareschi sul n 51 del 1956 del Candido, «io amavo appartarmi sotto un albero a pie’ del quale io m’ero costruito una capannuccia di frasche. Là passavo le mie ore più liete, in compagnia di me stesso e dei miei sogni. Da quella capannuccia di frasche io partivo a cavallo della mia fantasia, e galoppavo per le strade del mondo che, allora, era tanto grande. Oggi, quando mi sento oppresso dalla noia o dall’amarezza, io torno con la mente sotto quell’albero e ritrovo tutti i miei pensieri e i sogni di allora, e, assieme ad essi, l’entusiasmo e la forza di continuare a vivere. Anche tu, postero diletto, scegliti un albero sotto il quale sognare. Lì ritroverai puntualmente te stesso».

Come abbiamo visto, la lavorazione dell’ultimo film di don Camillo interpretato da Fernandel non fu mai ultimata. Rimase incompiuta come incompiuta rimase la casa che Guareschi aveva voluto costruire alle Roncole. Come incompiute rimasero tante cose, compresa la sua vita. Ma in fondo il “compimento delle cose” non è di questo mondo.

Michele Brambilla ha scritto sul Foglio del 9 luglio 2018: «La mattina del 22 luglio 1968, un lunedì di mezzo secolo fa, Giovannino Guareschi si svegliò nella cameretta della sua piccola casa di Cervia che aveva acquistato per le vacanze, si alzò dal letto, andò ad aprire la finestra, scambiò due chiacchiere con una dirimpettaia che aveva anch’essa appena aperto la finestra, i due si scambiarono il buongiorno, anzi Giovannino per la precisione disse “è una bella giornata”, poi si girò per tornare verso il suo letto e cadde a terra. Poco dopo la figlia Carlotta, entrando in camera, lo trovò lì, ormai senza vita, in ginocchio davanti a un’immagine della Madonna con la quale Giovannino era solito parlare e qualche volta pure discutere, come faceva con il crocifisso la più famosa delle sue creature, don Camillo».

È questo che Guareschi voleva dire, e voleva dirlo soprattutto ai giovani. Voleva dire cioè che la vita, come la giovinezza, è un attimo. Che quel tempo che è dato di vivere, per quanto breve, è come “una bella giornata”.

“Giovannino nostro babbo” è un libro nel quale Carlotta e Alberto Guareschi hanno voluto raccontare la movimentata vita del padre. Nel risvolto di copertina, una frase dello scrittore recita: «Posseggo un grosso capitale che nessuna inflazione, nessuna rivoluzione potrà mai portarmi via: il ricordo vivo di una giovinezza intensamente vissuta e mai tradita».

(Fine)

La copertina del libro
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Paolo Tritto

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