Sorprendono sempre le analogie che si possono fare tra le varie epidemie che hanno funestato la storia. Interessante è anche vedere come queste sono state vissute dalle popolazioni colpite e, soprattutto, come poi è ripresa la vita e cosa suggerisce la fede cristiana nell’ora della prova.
Tra il 1918 e il 1920, quando imperversò l’epidemia di spagnola, Giovannino Guareschi era un ragazzino e non era ancora quello scrittore reso famoso dai racconti di Don Camillo e Peppone. Per la verità, in quegli anni non c’era soltanto la diffusione della pandemia, purtroppo. C’era anche la guerra e, per di più, c’era la povertà, la fame. E questo, ovviamente, rendeva tutto più complicato.
Il papà di Giovannino, o Nino, come lo chiamavano in famiglia, negli anni della guerra era lontano da casa, richiamato nell’esercito. Possiamo immaginare lo stato d’animo della mamma, spaventata, che scriveva al marito: «Nino è a casa da scuola da tre giorni, sfinito, e cerco di curarlo perché c’è in giro quella malattia». Ancora non sapeva dare un nome a questa malattia che colpisce il figlio: “Nino va peggiorando”, “Nino è alquanto pallido ma sta meglio”, infine “Nino ha avuto una ricaduta”.
Poi la consapevolezza della signora Guareschi comincia a farsi chiara riguardo all’epidemia che man mano investe la zona dove vivevano: «A Parma si è manifesta una terribile epidemia: colera asiatico, febbre spagnola? Anche ieri ne morirono molti. […] Epidemia che infierisce a Parma e che si è estesa anche a Fontanelle con molti ammalati e a San Secondo con dei morti. Seguo scrupolosamente le norme igieniche preventive». Finché le cose si aggravano: «Anche qui si muore. […] Anche il nostro medico è ammalato abbastanza gravemente. Tre son morti ieri a Zardi, il muratore, è in fin di vita».
È necessario iscrivere il figlio a scuola, informa il marito, ma – non sembra di descrivere la situazione di oggi? – «Non si conosce la data di apertura essendo le condizioni sanitarie poco soddisfacenti anche in città. Tua sorella e tutti i suoi sono gravemente ammalati e la sua bambina più grande, Maria, è moribonda. Ovunque il contagio compie la sua strage…»
Ma poi tutto finisce e arriva il sospirato giorno in cui si può tornare alla normalità. Il 13 novembre del 1918 si riaprono finalmente le scuole. E, ad accrescere la gioia, arriva la notizia della fine della guerra. Il piccolo Giovannino Guareschi non sta nella pelle per l’eccitazione. È un ragazzino e non è ancora uno scrittore. Nonostante ciò, sente l’urgenza di scrivere al papà: «C’è la pace babbo, mandami dei soldi, perché io la possa festeggiare, ora che la Spagnola se ne è andata e l’appetito è ritornato».
Le prove di Giovannino Guareschi non finiranno qui; ma questa esperienza triste gli avrà insegnato che, anche nell’ora della prova, la vita riesce sempre a farsi strada e a rianimare il cuore degli uomini. Come quando, nel ’54, ripensando al suo internamento nei campi di concentramento tedesco e al carcere, scriveva: «I giorni della sofferenza non sono giorni persi: nessun istante è perso, è inutile, del tempo che Dio ci concede. Altrimenti non ce lo concederebbe. Ogni cosa, alla fine, avrà la sua sistemazione. Rimpiango io i due anni perduti dei Lager? Tutt’altro. Perché io non ho perso un solo minuto secondo di quei due anni. E se oggi sono quel poco che sono, lo devo proprio a quei due anni di Lager! E così io ripenso a essi con infinita nostalgia, come si pensa al melo fiorito della primavera. Ebbene, io sono dello stesso parere di don Camillo: un Dio c’è! E funziona magnificamente bene, da miliardi di secoli».
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