Gli anni del grande silenzio della fede cristiana

Andrea Riccardi, della Comunità di Sant’Egidio, interviene sulla fragilità spirituale dei cattolici e sulla necessità di una ripresa della passione culturale.

«Secondo me il grande problema è il basso livello di passione delle comunità cristiane». Con queste forti parole Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, interviene al dibattito promosso dal quotidiano Avvenire su ”cattolicesimo e cultura”; un dibattito che ha coinvolto, dalle colonne di quel giornale, un gran numero di personalità della cultura cattolica.

Riccardi non usa mezzi termini. Dice che per i cattolici, oggi, «la fragilità culturale è figlia di quella spirituale: il problema è il freddo nelle nostre chiese». L’osservazione di Riccardi non può che essere condivisa. Si dice che il problema è il calo della partecipazione alla messa domenicale. Ma questo appare sempre più evidentemente come un alibi. La verità non è propriamente il venir meno della partecipazione alla liturgia. Sta venendo meno, più che altro, l’origine di tutto questo. Sta venendo meno la fede.

Si sentono anche, per spiegare questa crisi, espressioni come “dopo il Covid”. Questo non è onesto – bisogna dirlo chiaramente – e anche questo è un tragico alibi. La crisi della fede non ha altra origine che qualcosa di cui i cattolici sono direttamente e personalmente responsabili: la trascuratezza della propria umanità, la perdita della passione per l’uomo, del desiderio operoso del bene; in fondo, sta venendo meno lo sguardo appassionato verso se stessi e verso la propria comunità. Si tratta di quella umanità verso la quale la fede vuole rappresentare una risposta, la risposta più adeguata che possa esserci in assoluto: Cristo.

Ma bisogna rendersi conto che la fede non può essere una risposta ragionevole se manca una domanda. Se cioè si trascura la domanda che scaturisce dalla propria umanità. E quando si parla di umanità non si parla di qualcosa che riguarda soltanto gli uomini. Riguarda qualcosa che attiene anche alla natura di Cristo che è divina ma anche umana. Per questo, venendo meno il fervore e la partecipazione alla storia umana, nello stesso tempo viene tragicamente meno la fede.

È quel silenzio della fede, quel «freddo nelle nostre chiese» ripete Riccardi. Quel “freddo” che è conseguenza della mancanza di un “pensiero” cristiano – termine molto caro al grande papa san Paolo VI. È il pensiero, è il giudizio cristiano sulla vita degli uomini. È la risposta cristiana all’uomo e alla donna che, tutti indistintamente, vorrebbero porre tanti perché. Domande che riguardano la radice del proprio essere uomini e che, in tanti modi, si prova a mettere a tacere: che senso ha la vita? Che senso ha la morte? Perché la violenza, l’odio, la guerra? Perché la sofferenza? Perché la sofferenza di mio figlio?

“Perché?” Si chiede la mamma nello straziante dolore per la morte di un figlio. Quella donna, in una terribile circostanza come questa, insistentemente non ripete altre parole che questa: perché?

La fede è il presentimento che, per quanto misteriosa, per quanto al di là di ogni umana comprensione, per quanto inaudita, possa esserci una risposta a questi perché. Che si possa esprimere un “pensiero” anche su questo. “Una fede pensata” afferma Riccardi. Un pensiero che non può non essere che un pensiero vero, tremendamente vero, tanto vero da essere un pensiero fatto carne, da essere vero come un uomo in carne e ossa, Cristo.

La risposta a queste supreme domande dell’uomo è ciò che dà forma alla cultura cristiana nel suo specifico. Una cultura che, in quanto tale, deve essere pubblicamente e pazientemente sostenuta con tutta la forza di un’appassionata creatività.

Negli anni del grande freddo della fede, come sono questi nostri cupi e dolorosi anni, guardiamo dunque a Cristo. Non soltanto alla sua divinità, alla potenza dei suoi miracoli. Guardiamo anche all’umanità di Cristo. Al modo così umano che lui ha di guardare agli uomini. Guardiamo alla sua tenerezza, alla sua sofferta partecipazione alla vita. Alla sua passione per gli uomini, per il singolo uomo. Fino al punto di volere immolarsi sulla croce per questa passione. Non è un caso se questo supremo sacrificio di Dio è stato chiamato Passione.

Guardiamo a questo per non rischiare di vivere la fede, dice ancora Andrea Riccardi, come un cristianesimo “rannicchiato” e disinteressato della vita. Cerchiamo anche, prosegue l’esponente di Sant’Egidio, di esprimere questa passione come una cultura che è «la passione con cui si vive la fede e si partecipa alla storia umana».

Cerchiamo di esprimere una cultura, un pensiero che sia capace per esempio di rendere la pace nuovamente desiderabile all’uomo contemporaneo. Quanto bisogno c’è – lo vediamo benissimo – di questo. Per Riccardi, «oggi spesso ci aggiriamo nella storia come gattini ciechi, senza sapere cosa sia successo prima, ma anche a quello che sta per succedere. Pensiamo alla guerra e alla riabilitazione della cultura del conflitto».

«Il problema di oggi è il freddo delle nostre chiese. Perché ogni operazione culturale nasce da una grande passione e diciamo anche dalla grande passione scatenata dalla fede».

Ruines d’une abbaye a Venosa
Stampa di Edmund Kanoldt (1845-1904) – Jules Gourdault, L’Italie, Librairie Hachette et C.ie, Paris, 1877, p.674
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Paolo Tritto

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