“Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo” nella predicazione di don Giacomo Tantardini

In un libro pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana, le omelie del sacerdote in San Lorenzo fuori le Mura sull'essenza della vita cristiana.

Ricordiamo tutti le prime parole di papa Francesco appena eletto quando disse di essere venuto “dall’altra parte del mondo”. Era un modo per sottolineare una certa discontinuità rispetto alla provenienza europea dei pontefici che lo hanno preceduto. Un altro elemento di novità il papa argentino lo rivelò in un’intervista quando dichiarò di essere stato eletto Vescovo di Roma pur non avendo frequentazioni romane.

Il papa disse allora di essere stato poche volte nella città eterna dove non conosceva nessuno se non un sacerdote, un certo don Giacomo Tantardini. Questo sacerdote, incardinato nella diocesi di Roma ma proveniente dal clero ambrosiano essendo nato nel 1946 a Barzio, in provincia di Lecco, è poco conosciuto al grande pubblico. Chi però lo ha conosciuto – chi scrive ha avuto questa fortuna – sente oggi evidentemente, a dodici anni dalla sua prematura scomparsa, la necessità di rendergli testimonianza.

Il filosofo Massimo Borghesi, che è certamente tra chi lo ha conosciuto meglio, ha curato oggi per la Libreria Editrice Vaticana una raccolta delle omelie di Tantardini, tenute dal 2007 al 2012 nella basilica romana di San Lorenzo fuori le Mura; un libro con un titolo molto suggestivo: «È bello lasciarsi andare tra le braccia del Figlio di Dio». Nel momento in cui scriviamo, il volume è ai primi posti delle varie classifiche di vendita dei libri di argomento religioso.

Questo è certamente sorprendente perché, come si è detto, il nome di Tantardini non è conosciuto da molti. Sarà stato anche perché lo stesso papa Francesco ha voluto firmare la Prefazione del libro dedicato a questo suo amico che fu – sono parole di Francesco – «un vivace figlio spirituale di don Luigi Giussani». È un libro nel quale papa Francesco intravede, come ha detto, l’essenza originale della vita cristiana.

L’aspetto più rilevante del sacerdozio di don Giacomo è stato indubbiamente l’amore profondo verso l’Eucaristia nella quale egli scorgeva con nettezza l’evidenza di Cristo risorto.

Era un amore profondo e vero, cioè umano. Non espressione di una ritualità o di formalismi. E se era un amore a Cristo umanamente vero è perché don Giacomo sentiva di essere amato da Cristo allo stesso modo. Cioè alla maniera di un Dio che ama come uomo. Che cerca per esempio l’amicizia degli uomini, che partecipa con emozione alle vicende dei suoi amici, che piange con loro – lacrime vere – e che gioisce con loro nei momenti gioiosi.

Sarà certamente così. Lo vediamo tante volte nel Vangelo. Davanti alla vedova di Nain, la prima reazione di Cristo è la sua umanissima risposta: “donna non piangere”. Allo stesso modo vediamo Cristo piangere per la morte dell’amico Lazzaro. Poi con la potenza della sua divinità egli interviene a resuscitare chi era morto. Ma soltanto dopo, non prima cioè di essersi manifestato in tutta la sua umanità. 

Don Giacomo sapeva vedere in Cristo la sua divinità, ma anche la sua umanità. Cosa, quest’ultima, che spesso viene trascurata. E quello che si trascura è il fatto che Cristo è vero Dio ma è anche il più umano di tutti gli uomini. Anche nei santi, secondo don Giacomo, la santità consiste principalmente nella loro umanità. Quelli che egli chiamava “i santi senza san”.

Egli sentiva, cioè avvertiva sensibilmente, proprio con i sensi, questa umanità di Cristo. E la scelta del titolo per il libro delle sue omelie lo evidenzia molto bene. Questa umanità della fede è una cosa che sarebbe difficile da spiegare se non l’avesse spiegata lui stesso quando ricordava la sua mamma che lo portava bambino in chiesa e che lo invitava a “mandare un bacio a Gesù”: «Non sapeva, la mia povera mamma, che mandare un bacio vuol dire adorare. In latino adorare vuol dire baciare. E questo mandare un bacio a Gesù adesso commuove e conferma la mia fede più che i libri di teologia».

Non bisogna pensare che in questo ci fosse quel misticismo che si allontana dal mondo. Anzi. Quando don Giacomo Tantardini viene mandato a Roma per gli studi di Diritto canonico vi giunge in un momento in cui la capitale, come altre città, sta vivendo una fase di tumultuosi cambiamenti. Alcuni giovani, insieme a don Giacomo, si ritroveranno in quel momento estremamente drammatico a seguire don Luigi Giussani che proprio allora dava vita a Comunione e Liberazione.

La comunità romana di CL, grazie a don Giacomo, insieme al quale bisogna ricordare il lucano don Tommaso Latronico e il valdostano don Donato Peron, si buttò a capofitto nella turbolenta vita universitaria di quegli anni, Anni di piombo, come spesso sono stati definiti per la violenza politica presente.

Tantardini non era uno di quelli che, come si faceva ancora in quegli anni, divideva la società in due parti: da un lato la Chiesa, dall’altro il mondo. Si discuteva allora, per esempio, se “il Tevere” dovesse essere più stretto o più largo; si discuteva cioè quanto questa separazione dovesse essere netta. O meglio, anche se in Tantardini questa separazione c’era, e forse segnata più marcatamente di tutti, egli comunque saltava il muretto di separazione. Perché era convinto che il cristiano deve sempre andare incontro all’uomo. A tutti gli uomini, anche a chi, dalle feritoie di questi muri di separazione, ti spara addosso. Non è un modo di dire, non lo era davvero in quegli Anni di piombo per la comunità romana di CL.

Ma cosa c’entra Comunione e Liberazione? E come don Giacomo Tantardini e i suoi amici si sono ritrovati a seguire il carisma di don Luigi Giussani? Anche questo passaggio lo spiega abbastanza efficacemente Massimo Borghesi nel libro delle omelie del sacerdote, quando ricorda la partecipazione di don Giacomo a un’assemblea tenuta da don Giussani dove il fondatore di CL pose la grande questione: cosa ci mette in rapporto con Cristo? “La Chiesa” aveva risposto allora qualcuno dei partecipanti all’assemblea, “la comunità” avevano detto altri, altri ancora: “è la nostra amicizia”. Don Giacomo Tantardini ricordava bene quell’assemblea ancora a distanza di anni: «Alla fine di tutti questi interventi, Giussani ripete la domanda: “Che cosa ci mette in rapporto con Gesù Cristo?”, e poi diede lui stesso la risposta: “Il fatto che è risorto”. Questa cosa non la dimenticherò più! Il fatto che è risorto».

L’uomo può incontrare Cristo perché egli è risorto e perché è vivo. E lo è oggi. In don Giacomo questo incontro con Cristo è avvenuto in modo del tutto particolare, tanto che più che parlare di incontro si potrebbe dire che fu letteralmente investito da Cristo. Proprio come una persona che ti viene incontro e che, non vedendoti, ti viene addosso, ti prende in pieno, ti travolge, mandandoti a gambe all’aria; un po’ come, sulla via di Damasco, successe a san Paolo, apostolo che don Giacomo amava particolarmente, tanto che si dice conoscesse a memoria le sue Lettere.

Si farebbe torto a questo prete se parlando di lui non si parlasse delle opere. E purtroppo qui certamente non se ne potrebbe parlare diffusamente. Ma in fondo non ce n’è nemmeno molto bisogno dal momento che il libro edito dalla Libreria Editrice Vaticana è molto dettagliato in proposito. Citiamo soltanto il settimanale Il Sabato e la rivista 30Giorni. In particolare questo giornale, che Tantardini volle affidare alla direzione autorevole di Giulio Andreotti e che, secondo Borghesi, è stato un dono che don Giacomo ha voluto fare alla Chiesa di quegli anni.

Tutto traeva ispirazione dalla consapevolezza che, secondo lui, Cristo “è se opera”. Quindi si può conoscere Cristo soltanto vedendolo all’opera. Soltanto perché, anche oggi, possiamo sorprenderlo in azione. Ed è possibile aderirvi per fede soltanto per l’attrattività suscitata dalla sua opera nella storia e nella vita degli uomini.

Né è pensabile, anche per noi cristiani di questo tempo, che il cristianesimo possa essere comunicato se non a partire da quello che dell’opera di Cristo noi abbiamo concretamente “visto e udito”. Quest’opera sarebbe, anche, l’attualità del cristianesimo oggi. Questa umanità sarebbe, nel cinismo dei tempi, la novità del cristianesimo.

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Paolo Tritto

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