Tra i tanti danni che questa pandemia ha procurato un danno indelebile e non meno preoccupante di quello economico-sociale è quello della “rottura delle relazioni” ovvero della “frantumazione della dimensione comunitaria” sia essa amicale, ecclesiale, associativa.
Ci sono legami da ricostruire ed un umano da ricomporre.
Si è insinuata tra noi, forse anche giustamente, una sorta di “cultura del sospetto”.
Ormai, in ossequio al necessario distanziamento sociale, quando siamo in un supermarket prendiamo bene le misure della corsia pur di non incrociare l’altro da noi che pure sta facendo la spesa. Per non pensare, poi, al panico generale che si crea quando qualcuno intorno a noi, magari per una semplice rinite allergica, tossisce o peggio ancora starnutisce!
I sentimenti di paura, fragilità, solitudine che tutti abbiamo provato in questi mesi hanno, con ogni probabilità, procurato una ricaduta in quell’ individualismo che tanto confligge con la dimensione comunitaria con cui viviamo e testimoniamo la nostra fede.
La Chiesa da sempre ci insegna a sottrarci da una fede individualista per essere raggiunti dal grande dono di appartenere ad una comunità… alla più bella delle comunità: quella dei figli di Dio.
Certo, molte delle nostre case si sono “riconosciute” quali autentiche “piccole Chiese domestiche”… ma la dimensione spirituale e sociale della nostra fede supera, inevitabilmente, i confini delle nostre abitazioni trovando spazio di azione in quella intera umanità che è da sempre “abitata da Dio”.
Sappiamo bene che c’è una Grazia che ci precede e ci supera, anche in questo tempo così fortemente provato dal disastro del Covid, e noi abbiamo il dovere di testimoniare il fascino di questa Grazia non “parlandone”, o comunque non solo, ma facendola “vedere” con gesti concreti.
Come Chiesa, per anni, ci siamo interrogati su quella che a ragione abbiamo definito una crisi antropologica; abbiamo, nel tempo della grave crisi economica del 2008/2009, dato il nostro contributo per sottolineare che la madre di tutte le crisi (economica, sociale, politica) è la crisi dell’umano che poi è una crisi spirituale.
Non a caso, abbiamo dedicato quest’ultimo decennio alla Sfida Educativa.
Per riconoscere l’umano in crisi, infatti, è necessario sentirsi tutti coinvolti in un processo educativo che ci vede al contempo educati ed educatori.
Quella che si apre dinanzi a noi è una crisi ben più grave di quella della recessione del 2008/2009.
Si parla di un crisi economico-sociale addirittura più complessa di quella del primo dopoguerra.
La fede, come sappiamo, non sottrae il credente dalla storia ma lo immerge completamente in essa.
Abbiamo bisogno, come Chiesa che intercetta i bisogni del territorio, di far dialogare ancora più sapientemente fede e vita, Vangelo e storia, uomo e Dio.
Nel corso del Sinodo, del resto, abbiamo decisamente “sottolineato” come non si possa celebrare la fede rimanendo “indifferenti” alla storia.
La nostra fede è, e deve essere, un gesto concreto di speranza per la società perché la fede autentica feconda la storia, la rende bella e le impedisce di invecchiare.
E’ vero, siamo in crisi, crisi profonda e siamo solo all’inizio.
Ma è vero anche che i corpi intermedi però ( soprattutto quelli ecclesiali) sono vivi; i nostri mondi di volontariato e associativi non sono affatto residuali, c’è bisogno di far emergere, allora, tutto il bello e il buono che è presente nella nostra storia.
Il nostro compito è creare relazioni, gettare ponti, attivare nuove forme di dialogo.
Ma mai come in questo momento ci è chiesto un rinnovato protagonismo.
C’è una sofferenza sociale che la politica non può non caricarsi sulle spalle: la povertà, l’ingiustizia, l’ ambiente, le occasioni perdute, l’incapacità di sognare di costruire opportunità.
La Chiesa invece può e deve caricarsi questa sofferenza sociale.
I laici realizzano la santità: Non “nonostante” il mondo ma “attraverso il mondo”.
Per cui la santità laicale oggi si vive nelle circostanze che il Corona Virus ha prodotto.
L’esperienza cristiana la si vive nel secolo, nella storia, aderendo profondamente alla realtà, con le sue inquietudini e con le sue contraddizioni, con i suoi conflitti e le sue lotte, con le sue tensioni ed anche con le sue ingiustizie e le sue contraddizioni.
C’è il rischio di adagiarsi in modo pigro alla tradizione, al cosiddetto “si è fatto sempre cosi”, alla “consuetudine” pastorale…dimenticando che la pastorale per essere viva ha bisogno di essere pensata e ri-aggiornata in rapporto al fluire della storia e all’emergere di nuove dimensioni sociali.
Avvertiamo il desiderio, allora, di lavorare per il miglioramento della nostra condizione sociale a motivo del superamento di questa grave crisi
Laici nella storia
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