Antonella Ciervo è scrittrice e giornalista professionista. Ha lavorato per varie testate giornalistiche tra le quali Corriere del Mezzogiorno e Il Quotidiano del Sud, per citare le più recenti; ha inoltre diretto questo giornale, Logos, per molti anni. Ha scritto tre romanzi pubblicati dall’editore Edigrafema di Policoro e recentemente, sempre per lo stesso editore, “Con i piedi in guerra. Vite di uomini e donne che hanno raccontato l’orrore”. Abbiamo rivolto a lei alcune domande su un argomento, come la violenza della guerra e del terrorismo, divenuto purtroppo di stringente attualità.
Hai portato in libreria un tuo nuovo libro, un po’ diverso dagli altri che hai già pubblicato. È un volume in cui riporti l’esperienza, non raramente ai limiti dell’eroismo, di reporter, di soldati, di osservatori impegnati in prima persona su fronti di guerra. Com’è nato questo libro?
Mi ha sempre incuriosito approfondire i fatti. Dopo l’inizio della guerra in Ucraina osservavo ogni giorno gli inviati di guerra e mi chiedevo in che maniera il contatto quotidiano con il dolore, con i soprusi, con la morte interveniva nelle loro vite. I giornalisti sono uomini e donne che lasciano i loro affetti, vivono in condizione di grande pericolo e affrontano la paura. Ho voluto raccontare questo lato importante di una professione che contribuisce alla conoscenza e che rappresenta una testimonianza fondamentale per i nostri tempi, “viziati” dalla falsa informazione.
“Con i piedi in guerra” è il titolo che tu hai dato a questo tuo volume. Cosa spinge questi uomini a sporcarsi le scarpe nel terreno fangoso e minato delle guerre?
Si capisce leggendo le loro interviste: l’impegno civile di raccontare ciò che, altrimenti, non si potrebbe conoscere. In particolare le due giornaliste freelance che ho intervistato, una delle quali è la materana Nancy Porsia, vanno nei luoghi in guerra autonomamente pur di dare voce a chi non ne ha, di descrivere ciò che accade rischiando la vita da sole. Credo si debba a loro e a tutti gli altri cronisti che ho intervistato il valore delle testimonianze che la storia terrà in futuro e che nessuno potrà cancellare perché descritto da chi c’era.
Non deve essere facile, per chi come te è giornalista, confrontarsi con eventi come le guerre. Si dice che la prima vittima della guerra è la verità. Vale la pena, in questo difficile contesto, ostinarsi a cercare la verità?
Vale sempre la pena e non solo in guerra. La verità è l’unico strumento che ancora oggi ci salva dalla narrazione di maniera. I giornalisti devono raccontare ciò che vedono, lo devono ai lettori e ai telespettatori. È il loro dovere. Possiamo chiamarla verità, realtà dei fatti o cronaca. È sempre e comunque, il racconto di ciò che accade davanti ai loro occhi.
Un’ultima domanda, forse la più difficile. Il pensiero va soprattutto all’Ucraina e alla Terra Santa; quanto è lontana la pace? Scrivendo questo libro, forse ti sarai posta una domanda come questa.
È la domanda che ho posto nel libro anche al professore di Diritto Ecclestiastico dell’Università di Bari, Gaetano Dammacco. All’epoca dell’intervista era davanti a noi la guerra in Ucraina ma credo che oggi la sua risposta sarebbe stata la stessa e mi trova d’accordo: serve uno sforzo corale in cui anche la Chiesa sta facendo la sua parte ma devono farla tutte le Chiese, intese come confessioni. L’universalità del dolore e della morte richiedono un impegno che il mondo recente forse non è preparato ad affrontare ma che ritengo sia necessario oggi.
Le parole di Antonella Ciervo e il suo libro richiamano inevitabilmente alla mente tutta la potenza dei versetti profetici di Isaia: «Come sono belli sui monti / i piedi del messaggero che annuncia la pace, / del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza». Come sarebbe bello che in un giorno non molto lontano quegli stessi “piedi in guerra” possano essere i piedi del messaggero che annuncia la pace, possano essere messaggeri di buone notizie.
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