S. Eustachio, patrono della città di Matera. Chi era costui?

Sembra un romanzo d’avventura la biografia di Placido-Eustachio, generale e ricco patrizio romano vissuto tra il I ed il II sec. d.C. Una storia frammista a leggenda, ricca però di insegnamenti e di spunti di riflessione. Un santo molto amato a Matera eppure per certi versi ancora poco conosciuto.

L’avventurosa vita di sant’Eustachio

Valoroso generale romano e nobile e ricco patrizio, Placido si distinse durante l’impero di Traiano per numerose vittorie nella guerra di conquista della Dacia (attuale Romania e parte della Bulgaria). Un militare abituato a scontri sanguinosi e con una personalità dalla natura contrastante: persecutore dei cristiani e generoso benefattore. Una vita, la sua, fatta di dedizione alla patria e alla famiglia, stravolta un giorno dell’anno 100 o 101 quando, recatosi a caccia nel bosco di sua proprietà, tra le corna maestose di un cervo, apparve una croce scintillante di luce innaturale ed una voce gli parlò: «Placido, perché mi insegui?». Spaventato, cadde a terra mentre la voce gli rivelava di essere Cristo, e che gli era apparso per trasformarlo da cacciatore in preda della sua misericordia.

Cessata la visione e tornato a casa, raccontò l’accaduto alla moglie, la quale, a sua volta, gli riferì che la notte precedente le era apparso in sogno uno sconosciuto dicendole che il giorno dopo si sarebbe recata da lui insieme al marito. E, quando, appunto il giorno dopo, Placido, la moglie ed i due figlioletti si recarono dal vescovo, la donna riconobbe in lui la persona apparsale in sogno. Convertitisi, furono tutti battezzati e cambiarono il loro nome: Placido si chiamò Eustachio, la moglie Teopista e i due figli Teopisto e Agapito.

Il giorno successivo al battesimo, Eustachio tornò al luogo della visione e ancora una volta Gesù gli apparve, gli preannunciò che sarebbe stato sottoposto a prove dolorose e lo esortò a resistere con pazienza. E, in effetti, di lì a poco, da facoltoso patrizio si ridusse in miseria, una malattia fece sterminio di servi, cavalli, bestiame ed i suoi beni furono sottratti dai ladri. Perso tutto, decise di abbandonare Roma e di recarsi in Egitto. Ma lì si abbatterono nuove disgrazie: il capitano della nave su cui si erano imbarcati, invaghitosi di Teopista, la catturò e la portò via con sé; Agapito e Teopisto furono rapiti uno da un leone e l’altro da un lupo. Teopista scampò, però, alle insidie del rapitore e trovò rifugio nel villaggio; anche i due fanciulli riuscirono a salvarsi, grazie all’intervento di un gruppo di pastori e di contadini che li portarono al loro villaggio e li allevarono con cura, anche se, cresciuti separati, ignorarono di essere fratelli. Eustachio, dopo aver vagato a lungo, trovò accoglienza presso un proprietario terriero come bracciante e guardiano in un luogo vicino a quello in cui, a sua insaputa, vivevano i figli.

Passarono 15 anni. La minaccia dei nemici ai confini imperiali mediorientali indusse Traiano a ricorrere di nuovo al valoroso Placido per difenderli e lo mandò a cercare. Ritrovato e riconosciuto grazie ai segni di una vecchia ferita, egli ebbe l’incarico di arruolare soldati per formare un esercito. Venne fatta nuova leva e tra le reclute vennero accolti anche Teopisto e Agapito che subito si distinsero per qualità morali e militari, cosicché il generale, ignorando che fossero suoi figli, li volle ai suoi diretti comandi come sottufficiali. 

Conseguita la vittoria, le milizie comandate da Eustachio lasciarono i luoghi di guerra, e, lungo la strada del ritorno, si accamparono presso il villaggio in cui viveva Teopista. I due sottufficiali del generale le chiesero ospitalità e durante la permanenza in quella casa, discorrendo della loro infanzia, si riconobbero fratelli. Teopista, ascoltando i loro racconti, riconobbe i figli, non svelò subito la sua scoperta, ma, recatasi dal generale per chiedergli di essere aiutata a ritornare in patria, scoprì in lui suo marito e gli rivelò di aver ritrovato anche i loro figli. Così la famiglia dispersa poté finalmente ricongiungersi.

Di lì a poco morì l’imperatore Traiano (117 d.C.) e gli succedette Adriano, che, volendo festeggiare il generale, lo invitò a partecipare nel tempio del dio Apollo al rito di ringraziamento per le vittorie riportate, ma il glorioso generale si rifiutò, dichiarando di essere cristiano, scatenando così l’ira spietata dell’imperatore. Adriano ordinò che lui e i suoi familiari fossero sbranati nel circo da un leone; ma questo, benché istigato, si inchinò davanti ai condannati e si allontanò senza toccarli. Adriano allora comandò che fossero rinchiusi all’interno di un grosso toro di bronzo infuocato per tre giorni, in cui i quattro martiri morirono, però all’apertura di quella fornace, si scoprì che i loro corpi erano rimasti intatti. I cristiani li raccolsero e li seppellirono in un luogo in cui poi nel 325, sotto l’imperatore Costantino, fu eretta una chiesa. La cattedrale di Matera custodisce due importanti loro reliquie contenute in custodie d’argento cesellato: il braccio di sant’Eustachio ed il teschio di sant’Agapito.

Una storia ricostruita

Non tutto quello che si narra della vita di sant’Eustachio è storia, poiché è risaputo che gli scrittori di vite dei santi erano soliti colmare la carenza di notizie con aggiunte inventate reperite sia da narrazioni romanzesche e sia dalla Bibbia. Ciò non significa che quelle biografie sono delle favolette, poiché gli agiografi, sviluppando in forma avvincente la trama del racconto, fornivano ai fedeli cristiani insegnamenti e precetti edificanti, presentando i santi come modelli da imitare.

Nel caso di sant’Eustachio, tali scrittori hanno imbastito la sua vita avventurosa attingendo da narrazioni elleniche del II e III sec. d. C. e soprattutto dalla Sacra Scrittura. Per esempio, la visione di sant’Eustachio ricorda quella analoga di Saulo (il futuro san Paolo) sulla via di Damasco: anch’egli, accecato da una luce intensa, udì la voce di Gesù che gli chiese: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At, 9, 1-18). Nel libro di Giobbe, poi, si leggono le stesse vicissitudini di Eustachio ridotto in miseria per la perdita del bestiame e dei servi (Gb, 1, 13-22). Inoltre, anche il profeta Daniele fu gettato nella fossa dei leoni, ma questi non lo sfiorarono (Dn, 6, 12-29). Ancora nel libro di Daniele si narra di tre ragazzi ebrei che, per essersi rifiutati di adorare gli idoli pagani, vennero rinchiusi in una fornace ardente che, però, non fece bruciare loro nemmeno un capello (Dn, 3, 9-28).

In sostanza, dalle narrazioni delle vite dei santi vanno ricavati gli insegnamenti utili per capire come il vero cristiano deve comportarsi di fronte a particolari casi della vita, specie se segnati dal dolore. Dalla narrazione della vita di sant’Eustachio emerge evidente che le virtù da imitare sono quelle della fede, della speranza e soprattutto della fortezza, resistendo alle avversità, non scoraggiandosi davanti ai contrattempi e confidando nell’aiuto divino. In questo senso la storia di Placido-Eustachio si pone a modello anche per le donne e gli uomini del nostro tempo, invitati non solo ad imitare quelle virtù, ma anche a non legarsi troppo ai beni materiali, così precari da poter essere perduti in qualsiasi momento.

L’iconografia di sant’Eustachio

Si è soliti rappresentare sant’Eustachio inginocchiato davanti alla croce apparsa tra le corna del cervo, un’immagine appunto denominata Visione di sant’Eustachio. Frequente è anche la sua raffigurazione in piedi vestito da milite romano con la palma (simbolo del martirio) nella mano sinistra e la lancia in quella destra, mentre sullo sfondo od accanto si intravedono il cervo con la croce tra le corna ed un toro. Si tratta di un’iconografia ricca di simboli che vale la pena interpretare.

Don Ivan Santacroce, “S. Eustachio e famigliari martiri”, acrilico su tela
(110 x 75 cm), 2023, Cattedrale di Matera (presso il fonte battesimale)

Molto significativo il cervo che compare spesso nelle narrazioni popolari, in ogni tempo e presso popoli diversi. La produzione biblica e cristiana lo ha identificato, per esempio, come persecutore del serpente e, perciò, del demonio, ma anche come emblema di purezza, di carità, di fede e, in riferimento al battesimo, come il cristiano che si disseta ad una sorgente purissima da cui l’anima attinge l’acqua della vita eterna. Ma ricchissime di significato sono le corna del cervo, così tanto simili ai rami di un albero che si innalzano verso il cielo unendo il mondo terreno a quello celeste, andando a rappresentare l’unione tra due dimensioni opposte che raffigurano il conscio e l’inconscio in armonia tra loro. E, inoltre, la perdita dei palchi che si rigenerano annualmente è palese metafora del continuo rinnovo della vita che rinasce dalla morte, e pertanto è associabile alla resurrezione di Cristo. Peraltro, poiché a primavera le corna ricrescono con una ramificazione in più, esse caricano ancor più il simbolismo delle corna come “rinascita arricchita”, cioè come un passo avanti nel percorso di maturazione fisica e spirituale. Ciò porta a soffermare l’attenzione sul nome, di derivazione greca, assunto dal santo al momento del battesimo, poiché ha nessi col rinnovamento ciclico della vita, al pari delle corna del cervo ed anche della spiga di grano: Eustachio deriva da eu, “bene” e stàchyus, “spiga”, dunque “che dà buone spighe” e perciò “produce un buon raccolto”. Un significato che si ricollega alla cultura contadina materana, a prevalente indirizzo cerealicolo. Il nome degli altri congiunti, invece, hanno significati prettamente cristiani: Teopista (la moglie) e Teopisto (uno dei due figli) derivano da theòs “dio” e  pistòs “fedelecredente” (sottinteso “a” ed “in” Dio); Agapito (o Agapio) deriva dal verbo agapàzo “accolgo con amoretratto con affetto”, ed allora sta per “caritatevole”.

Quanto al toro che compare nell’iconografia, oltre a ricordare la modalità del martirio dei santi in quello di bronzo arroventato, si sa che esso rappresenta la forza, il potere; ma, nel nostro caso, è chiaro come sia stata la fede dei martiri a vincere la forza bruta, dal momento che il toro infuocato non distrusse neanche un loro capello. Si ricorderà, poi, che in ambito pagano quell’animale era associato a diverse divinità, per esempio a Zeus, il padre degli dèi greci; ebbene la vittoria della “santità” di Eustachio e familiari sulla “brutalita” dell’imperatore Adriano appare come vittoria della fede cristiana su quella pagana.

 Infine, è utile un riferimento al leone che non aggredì i santi nel primo tentato loro martirio. Trovarsi alla presenza del leone e non essere sfiorati, raffigura l’esistenza del cristiano segnata da prove e dolori, “leoni” che non sfiorano le profondità dell’anima che attinge la sua forza dalla fede e spera nell’aiuto di Dio. In definitiva, tutti possono chiamarsi “Eustachio”, cioè “ricchi di spighe”, perché è con quello stato d’animo che la vita può diventare come un campo fertile che produce un abbondante raccolto, cioè una vita degna di essere ammirata e ricordata.

Il culto di sant’Eustachio a Matera

La festa in onore di sant’Eustachio e familiari martiri ricorre il 20 settembre; una festa celebrata a Matera con particolare solennità fino a pochi decenni or sono. Attualmente essa è preceduta da un triduo di preparazione, al quale sono invitate a partecipare tutte le coppie che nell’anno festeggiano il 25° ed il 50° anniversario del loro matrimonio. Il giorno della festa, poi, al mattino il patrono di Matera è onorato con una solenne concelebrazione; al pomeriggio, invece, con la partecipazione anche dei Cavalieri della Bruna appiedati, si porta in processione la statua in legno di tiglio, vestita con i ricchi abiti di un generale romano, realizzata dallo scultore Arcangelo Sperdicchio tra il 1799 ed il 1800, che lo raffigura con un volto assai espressivo su cui spiccano occhi e baffetti neri.

A legare la città al suo Patrono sant’Eustachio fin dal remoto VIII sec. è senza dubbio in primo luogo la sua cultura contadina, a prevalente indirizzo cerealicolo; un legame, peraltro, simile a quello che lo lega alla protettrice, la Madonna della Bruna. Se, infatti, la festa del primo cade poco prima dell’avvio della stagione agricola (ed in quell’occasione, infatti, si benedivano le sementi), la festa della Bruna (2 luglio) ricorre pochi giorni dopo la mietitura. Quel forte legame si traduceva fino a non molto tempo fa nell’assegnazione del suo nome a tanta prole locale e nella presenza, tuttora visibile in varie zone della città più antica, di numerose edicole con la “Visione di sant’Eustachio”, mentre fuori e dentro la cattedrale la sua immagine è ripetuta innumerevoli volte.

Il culto del santo a Matera si fa risalire al 994 quando, stando alla leggenda, la città assediata dai Saraceni fu salvata dall’intervento miracoloso di Eustachio e dei suoi familiari vestiti da cavalieri. In realtà il culto è antecedente, poiché tra la fine del VII e gli inizi del IX sec. sulla Civita sorse un monastero  benedettino intitolato a sant’Eustachio. Esso raggiunse il massimo del suo splendore nel periodo di passaggio dal dominio dei Bizantini a quello dei Normanni, che riuscirono a impossessarsi della città nel 1064. Presso il monastero benedettino vi era una chiesetta ipogea a Lui dedicata che, intorno al 1060, appunto in quel periodo storico, venne ampliata a tre navate divise da 12 colonne e consacrata il 1082 (di questo tempio oggi è rimasta solo la cripta, non ancora resa accessibile al pubblico). Il nuovo sontuoso tempio fu, pertanto, anche il risultato della benevolenza dei nuovi signori della città, cioè del conte Roberto Loffredo e ancor più di suo figlio Amico, succeduto al padre nel 1080 circa, assai legato ai benedettini. Il notevole splendore dell’abazia materana fu dovuto altresì alla riforma cluniacense che, tra l’altro, sottrasse i monasteri benedettini all’autorità del vescovo e li pose alla diretta dipendenza dal pontefice.

Su parte dell’area appartenente ai benedettini fu edificata la cattedrale, i cui lavori furono ultimati nel 1270; fin da allora la nuova Chiesa Madre fu indifferentemente intitolata a Sant’Eustachio e a Santa Maria. Una parte dello spazio occupato dalla preesistente antica chiesa di Sant’Eustachio, posta più o meno nello spazio-corridoio tra la cattedrale e il Museo Diocesano, tra la fine del XVI e l’inizio del XVII sec. divenne il luogo usato dai mastri campanari per la fusione delle campane, per questo ancora adesso esso è denominato “corridoio delle campane” o “di Sant’Eustachio”. Va precisato, infine, che il culto di sant’Eustachio è diffusissimo, tanto che in Italia sono almeno una quindicina i luoghi in cui egli è venerato, tra i quali una basilica minore a Roma, a Campo Marzio, là dove subì il martirio, e l’église Saint-Eustache a Parigi, una delle più importanti della capitale francese. Un santo, perciò, molto famoso che è doveroso rivalutare, non fosse altro perché è parte importante e integrante della cultura materana da ben 1300 anni e soprattutto perché ha ancora molto da insegnare, specialmente quando lo ammiriamo inginocchiato davanti al cervo “sacro” che esibisce magnifiche corna ramose che, ogni anno perdute, ogni anno ricrescono con un ramo in più, a simboleggiare un’esistenza che si arricchisce utilizzando le energie, rafforzate dalla fede, generate anche dalle fatiche e dalle sofferenze quotidiane. 

Scrivi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

For security, use of Google's reCAPTCHA service is required which is subject to the Google Privacy Policy and Terms of Use.

Franco Moliterni

Responsabile culturale dell'Associazione "Maria SS. della Bruna"

Latest videos